INTERVISTA | Michele Rizzo chef dell'Agorà di Rende racconta una gastronomia calabrese fatta di pescato dei due mari, norcineria, cacciagione, prodotti del bosco. L’amore per i prodotti tipici si alterna a quello per la caccia e per il tiro a volo: sport che lo vede impegnato nel gareggiare ai massimi livelli
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Compiere 32 anni, un tempo, era considerato come entrare nell’età di mezzo. La consacrazione, il fulgore dell’attività umana, la piena maturità. E oggi? Ai giorni nostri, nella stragrande maggioranza dei casi, a quell’età si indugia ancora tra casa della mamma, le partite a calcetto con gli amici, le serate nei locali.
Non è così per Michele Rizzo, chef di rango e uomo all’antica a dispetto della giovanissima età, diventato cameriere per puro caso, a 15 anni, e che a 23 anni aveva già aperto un ristorante tutto suo, in autonomia, e senza che in famiglia nessuno avesse “precedenti” in tal senso. Caricandosi perciò oneri e onori di un’impresa: dal mutuo alle buste paga. Oggi, questo decisionismo, mediato da un’attenzione per la cucina che da dovere professionale è deflagrato in passione vera, lo vede saldo al timone di uno dei ristoranti più gettonati del cosentino: l’Agorà di Rende.
Come ti scopri ristoratore?
È successo tutto per caso, a 15 anni avevo voglia di guadagnare qualche soldo, e mio cugino, una sera, mi propone di dare una mano in sala, come porta-bibite ad un evento. Mi sono divertito, avrò regalato almeno una cinquantina di bevande, senza segnare nulla, e sin da quella prima esperienza, mi sono reso conto che se il cliente era felice, io stavo bene. Presto ho iniziato ad interessarmi al mondo del vino, e per tre anni, continuando a lavorare ed andare a scuola, ho sacrificato il giorno libero per fare il sommelier, facendo la spola tra Trebisacce e Cosenza. All’epoca lavoravo all’Agorà di Civita, ristorante con una fortissima influenza Arbereshe. Li ho affinato il gusto per la norcineria, per la tradizione dell’entroterra, per le carni tipiche come il capretto, il cinghiale, e le paste come le shtridhële o le striglie, tagliatelle irregolari strizzate con le mani… Nel frattempo, ho preso il diploma di ragioneria. E mi è servito tanto, per calcolare quantità, costi di gestione, ricavi. E poi, lo stesso anno in cui ho conseguito il diploma, ho aperto un ristorante a Cosenza, in società con lo chef. All’epoca, mi occupavo di ricavi ed approvvigionamenti.
Avevi qualche esempio in famiglia?
Assolutamente no. Nessuno, in casa, faceva il ristoratore. Tuttavia, venivo da una terra, Trebisacce, con belle tradizioni di norcineria, e tutta la cultura del pesce dell’alto ionio cosentino. Sono rimasto a Civita per qualche tempo, e poi ho deciso di ri-trasferirmi a Cosenza, ed aprire il mio ristorante Agorà, in omaggio alla mia prima destinazione. Volevo unire le cucine di mare e di montagna, le due tradizioni della mia terra.
Come sei diventato chef?
Per pura necessità. Gli chef andavano e venivano, ed io non riuscivo a garantire al locale la continuità che ritenevo indispensabile. Così, dopo una vita di sala, sono passato io stesso in cucina. Ero fresco di stage a Londra, dal mio mentore ed amico Francesco Mazzei, dove ero stato per prendere consapevolezza di realtà più grandi, più intense, e già lì ero rimasto affascinato dalla creatività, dalle opportunità, dalla ricchezza di esperienze che la grande cucina portava con sé.
Cosa ricordi degli inizi?
La paura di sbagliare. L’ansia di commettere errori che avrebbero compromesso il piatto, il servizio, ed il nome del mio locale. E soprattutto, l’incognita di un lavoro che in fondo conoscevo bene, ma che non avevo mai fatto in prima persona. Mi ha salvato la curiosità per la materia: quella che ti spinge ad andare sempre avanti, a cercare nuovi stimoli. Insomma, a formarti.
Qual è il tuo punto di forza?
La selezione della materia prima. In tanti anni, posso dire davvero di aver acquisito i requisiti fondamentali per capire cosa scegliere e cosa scartare. Nel fresco, nel pescato, in tutto. E subito dopo, l’attenzione ai processi. Ho un’attenzione maniacale per le tecniche di cottura. Seguo un criterio selettivo che è finalizzato a conservare la freschezza originaria.
Come è organizzata la sua cucina?
Ho una vera fissazione per il ciclo di produzione del piatto. È fondamentale. Devi valutare tempi, modi e costi dell’approvvigionamento, dello stoccaggio e della eventuale sanificazione, la rigenerazione, l’impiattamento. Ogni passaggio deve essere propedeutico all’altro. E in quest’ottica, la cottura è fondamentale per mantenere integrità, fragranza, rispetto delle caratteristiche organolettiche e nutritive, aromaticità.
Chi lo supporta in questi processi?
Ho una squadra che mi supporta da anni, ad iniziare da mia moglie, fondamentale nel mio ristorante, passando per i miei collaboratori. E comunque seguo tutto in prima persona, nella selezione e nella gestione del rapporto con i fornitori. Faccio un esempio: prendo in considerazione solo pescatori che seguendo le tradizioni della zona e della famiglia di provenienza. Ad Amendolara cerco le aragoste, che sono le stesse cantate da Omero, nella secca che si dice sia stata l’isola di Ogigia.
A cosa punta in futuro?
Sinceramente: non ambisco alla stella Michelin, anche se i riconoscimenti mi fanno immenso piacere. Voglio che la mia cucina, il mio ristorante, continuino ad essere un punto di riferimento per amici, familiari, e per una fascia di clienti più ampia possibile. La stella comporta una gestione ancora più alta, maniacale e anche dispendiosa del ristorante. E questo, porterebbe ad un innalzamento dei costi che finirebbe con l’allontanare tante persone che invece amo vedere intorno a me.
Un ristorante come punto di aggregazione...
Oggi il ristoratore ha un ruolo importante nel consesso civile, ha influenza, offre un punto di aggregazione privilegiato, ha rapporti che possono diventare eccellenti, se ci sa fare dialoga alla pari con tutti. Politici, forze dell’ordine, professionisti… devi saperti muovere anche nell’ambito delle pubbliche relazioni.
La cucina è la sua unica passione?
Cerco di dividermi equamente tra il ristorante ed il tiro al volo, sport che pratico da anni. Vengo da una famiglia di cacciatori, e sono un appassionato di fucili. La nostra è una cultura delle armi sana, fatta di rispetto dell’ambiente, di tradizione, di passione per i boschi e per la natura. Anche grazie a queste abitudini ho affinato l’amore per i funghi, i tartufi i prodotti di Sila e Pollino, e sto iniziando a sperimentare la cacciagione. Il tiro al volo è uno sport di precisione, mi aiuta a concentrarmi ed a staccare al tempo stesso. Anche perché se non sei connesso con ciò che ti circonda, se sei rimasto in cucina, i piattelli non li tiri giù. Ho iniziato a sparare a 14 anni andando dietro a mio padre cacciatore. Andare a caccia, e tirare al volo è amicizia, passione, dedizione. Quando ho tempo, quando riesco, poter uscire all’alba e immergersi nella natura è un’evasione formidabile. E comunque, rientro sempre a casa con le tasche piene di bacche e di erbe aromatiche…