Ad un anno dalla tragedia di Pioltello, quali sono le prospettive? La riflessione del professor Domenico Gattuso dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria che fa il punto sullo stato delle cose. Ne viene fuori un’analisi implacabile: “Lobby particolari, favorite da governi complici, hanno coltivato il mito dei treni superveloci, con investimenti stratosferici interamente a carico dello Stato, il tutto a vantaggio di una componente di impresa in regime privato privilegiato e di una minoranza di popolazione (quella che vive nelle metropoli e che godeva già delle migliori condizioni di trasporto)
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Il tema della sicurezza relativa al trasporto ferroviario è un tema mai sufficientemente preso sul serio dagli enti di Governo e dai vertici delle Ferrovie. Eppure i costi sociali sono pesanti, ma si percepiscono solo in occasione di incidenti con vittime, allorché si manifesta l’indignazione generalizzata, sull’onda emotiva amplificata dai media per qualche giorno. Purtroppo le statistiche si limitano agli incidenti più gravi e il Data Base dell’ANSF, Agenzia Nazionale per la Sicurezza Ferroviaria, non contiene di certo i tanti eventi – secondo quanto riportano i ferrovieri - in cui l’incidente è stato evitato per un soffio, essendo tali occasioni mai riferite dalle Imprese Ferroviarie.
Un anno fa, il 25 gennaio 2018, avveniva l’incidente di Pioltello, nell’area metropolitana milanese: 46 pendolari feriti e 3 vittime; essi avevano in comune la colpa di viaggiare su un treno regionale deragliato, mentre andavano incontro al proprio giorno. Un dramma. Uno dei tanti. Solo con riferimento all’ultimo decennio, altre tristi immagini tornano in mente, come quelle di Corato in Puglia nel 2016 (51 feriti, 23 morti) ancora su un treno regionale, di Viareggio in Toscana nel 2009 (oltre 100 feriti, 32 morti tra persone residenti lungo la linea adiacente alla stazione), Rometta Marea in Sicilia nel 2008 (46 feriti, 8 morti), Crevalcore in Emilia Romagna (80 feriti, 17 morti).
Dal 2000 ad oggi sono avvenuti ben 12 incidenti gravi correlati all’esercizio ferroviario (nell’insieme 105 decessi e 428 feriti). Non si contano poi gli incidenti dovuti a collisioni in linea con altri mezzi o con pedoni sui binari; la tragedia di Brancaleone dell’estate scorsa in adiacenza al mare è ancora troppo recente per essere dimenticata. Così come sembrano non fare testo le tragedie sfiorate, spesso minimizzate e archiviate frettolosamente; come il deragliamento nel dicembre 2017 in piena galleria (unica canna di 15 km) fra Cosenza e Paola, di un treno regionale che correva a 130 km/h, affollato di pendolari, fortunatamente senza vittime. E troppo spesso si dimenticano anche gli incidenti che coinvolgono ferrovieri, poveri cristi, sul lavoro. Riaffiora alla memoria la tragedia di Falconara, vicino Caltanissetta, nel 2014, in cui tre operai d’armamento vennero travolti da un treno mentre lavoravano alla manutenzione della linea. E l’incidente in cui è rimasto folgorato un altro ferroviere, mentre stava lavorando alla riparazione di un locomotore elettrico nel deposito di Reggio Calabria; Roberto era un mio amico, è ancora in coma, in un angolo di ospedale.
Il sindacato CUB-Rail ha rilevato 25 lavoratori morti e 40 feriti a causa di incidenti sul lavoro in ferrovia. Andrebbero ancora considerati i numerosi incidenti “minori” causati da malfunzionamenti di treni, porte aperte durante la corsa, tentativi di salire sul treno in movimento; nonché gli episodi, invero frequenti, di insufficiente “security” (aggressioni fisiche, atti vandalici, scontri fra personale e passeggeri, ecc.).
Certo il rischio di incidente in ferrovia non si può azzerare, ma le conoscenze di una nazione “sviluppata” potrebbero ridurlo drasticamente. Le esperienze, i progressi tecnologici, i sistemi di monitoraggio avanzati, le telecamere ormai diffuse in ogni dove, gli apparati di sicurezza ridondanti, la robotizzazione spinta dovrebbero renderci più tranquilli proprio in materia di sicurezza. A quanto pare non è così.
Si potrebbe e si deve fare di più per la sicurezza dei viaggiatori, dei lavoratori, delle comunità che vivono attorno ai treni. A cominciare dalla rivisitazione dei regolamenti, delle procedure e delle responsabilità. Un aspetto del tutto sconosciuto ai cittadini ma che merita di essere posto in grande rilievo è, ad esempio, quello denunciato invano dal CIUFER e da alcune componenti sindacali, relativo al decreto ANSF 4/2012 che incarica le Imprese Ferroviarie di garantire la sicurezza per la propria parte di sistema. Una scelta inopportuna, in cui il controllato è così chiamato a controllare se stesso. Tale provvedimento ha legittimato buona parte delle scelte societarie a discapito del bene pubblico ed ha riportato il trasporto ferroviario ad un livello di sicurezza inferiore a quello garantito dalla vecchia Azienda Autonoma FS, disattendendo le finalità indicate nel D.lgs 162/2007. In effetti l’ANSF ha determinato una situazione paradossale: le Imprese Ferroviarie non possono essere contestate a causa di una cattiva organizzazione del servizio, essendo quest’ultimo normato dalle stesse, salvo il caso in cui ricorressero incidenti in cui l’intervento della Procura della Repubblica individuasse reati riconducibili a gravi mancanze. Ma se l’ANSF è stata nominata per garantire l’emanazione della normativa nazionale di riferimento ed il relativo controllo del rispetto da parte delle Imprese Ferroviarie, perché è stato poi permesso di delegare, per la produzione di norme di sicurezza, le stesse Imprese?
Di recente il SIS 118 ha evidenziato la mancanza di defibrillatori a bordo dei treni, uno dei tanti problemi di sicurezza che le Imprese Ferroviarie sembrano non notare. Eppure, la possibilità che un passeggero o un lavoratore a cui siano assegnati compiti di sicurezza a bordo (macchinista, capotreno, ecc.) possano essere colti da malore non è un evento improbabile. Cosa potrebbe accadere se a sentirsi male fosse il macchinista alla guida di un treno, che è da alcuni anni la persona cui viene principalmente affidata la sicurezza di tutti i trasportati? I casi di macchinisti colti da malore non sono pochi, sebbene fortunatamente avvenuti sempre in stazioni o in luoghi dove è stato comunque agevole intervenire. Ma laddove esistono rischi importanti per centinaia di passeggeri, come si fa ad affidarsi alla fortuna?
Il crollo del ponte Morandi a Genova ci ha fatto ben capire che non ha senso aspettare un evento disastroso per decidere di eliminare o ridurre al minimo possibile un rischio che si conosce bene.
In tema di soccorso ci sarebbe molto da aggiungere: basti pensare alla mancanza, a bordo dei treni, di maschere indispensabili al personale di sicurezza per respirare in caso di incendio in galleria. Già dal 2001 le Imprese hanno iniziato ad occuparsi della possibilità di incendi in galleria e dei possibili scenari di intervento per la gestione delle emergenze ma, a quanto ne sappiamo, il personale sarebbe ancora oggi formato solo formalmente, senza alcuna simulazione di intervento. Come potranno un capotreno o un macchinista pensare ad organizzare i soccorsi se, avvolti dal fumo, non vedono e non respirano?
Noi riteniamo che si debba abrogare il Decreto ANSF 4/2012. Le norme debbono discendere da un’autorità nazionale che, al fine di evitare scelte legate al profitto, dovrebbe anche determinare quali e quante attrezzature di sicurezza debbano essere operative nelle stazioni, sulle linee, sui treni, nonché dimensionare il personale di sicurezza in modo da garantire il più possibile l’incolumità pubblica, in funzione del numero di vetture, dei viaggiatori e degli stessi lavoratori.
I moderni apparati tecnologici hanno innalzato le prestazioni dei servizi di trasporto ferroviario, ma nel campo della sicurezza non si è fatto abbastanza; non sarebbe sciocco ipotizzare una maggiore presenza di personale esperto. In fondo anche negli aerei con pilota automatico ci si affida alla competenza e all’intelligenza umana, con due piloti a bordo. Investire in lavoro specializzato non sarebbe poi un grande onere, considerato che nell’arco degli ultimi 30 anni sono stati cancellati oltre 120 mila posti di lavoro in ferrovia, in un’ottica d’impresa privata alla ricerca del profitto. Il personale FS è oggi un terzo di quello di allora: a bordo dei treni regionali si fatica ad incontrarlo, nelle stazioni minori è inutile cercarlo.
Meno manodopera in linea, nelle stazioni, macchinista unico, manutenzione affidata alle macchine, eliminazione di binari e scambi in stazione, taglio di numerose linee regionali, abbandono al degrado di numerose stazioni, specialmente sulle reti regionali (mancata manutenzione, chiusura di bagni e fontanelle, eliminazione dei cestini portarifiuti, mancata custodia, assenza di pulizia, ecc.); l’imperativo dominante è stato quello di ridurre i costi di impresa con effetti sociali, purtroppo, devastanti.
Lobby particolari, favorite da governi complici, hanno coltivato il mito dei treni superveloci, con investimenti stratosferici interamente a carico dello Stato (anche la Corte Europea ha di recente evidenziato costi esagerati rispetto ad altri contesti); il tutto a vantaggio di una componente di impresa in regime privato privilegiato e di una minoranza di popolazione (quella che vive nelle metropoli e che godeva già delle migliori condizioni di trasporto). Di riflesso, le reti ferroviarie e i servizi interregionali veloci, notturni e regionali sono stati lasciati al degrado, penalizzando fortemente i pendolari, le fasce più deboli della popolazione, le regioni meridionali. Il gioco è stato sin troppo facile: succhiare ingenti risorse allo Stato, per investimenti in infrastrutture, spesso sovradimensionate, talvolta anche inutili, ed attribuire ad imprese private la gestione dei profitti. Un altro esempio sono le autostrade: costruite con i fondi dello Stato, avrebbero dovuto divenire gratuite negli anni ‘90. Invece ne è stata affidata la gestione a soggetti privati come i Benetton che pensano principalmente a trarne profitto; un approccio micidiale che conduce a far pagare due volte la comunità degli onesti e, in proporzione maggiore, le fasce più deboli.
Da soggetto privato, le FS, complici generazioni di ministri, hanno cancellato centinaia di km di rete regionali, lasciando al degrado le linee e le stazioni della provincia e segnatamente quelle del Mezzogiorno, sopprimendo gran parte dei treni a lunga percorrenza fra Sud e Nord, affidando la manutenzione a ditte private con procedure discutibili, cancellando centinaia di corse ogni giorno, generando ad arte il degrado dei servizi ferroviari e dei territori attraversati, dissuadendo la domanda potenziale dal treno a vantaggio di decine di autolinee private.
La mancanza di attenzione alle esigenze del pubblico – come stabilito dalle finalità del Regolamento 1370/2007/CE – sulle reti ferroviarie ordinarie è forse un altro tassello di questa strategia; la percezione di insicurezza a bordo da parte dei viaggiatori li induce ad utilizzare modi di trasporto alternativi, più dispendiosi e spesso disagevoli, con conseguente danno a quell’ambiente la cui tutela, nelle dichiarazioni del Gruppo FS, sarebbe un obiettivo… irrinunciabile.
E’ un dato di fatto che stia crescendo a vista d’occhio la distanza fra Nord e Sud, le disuguaglianze fra regioni ricche e regioni in ritardo di sviluppo, fra una minoranza di cittadini privilegiati e una crescente moltitudine di poveri, fra viaggiatori di serie A e pendolari di serie B. Altre nazioni come la Germania non hanno investito in TAV, ma hanno reti efficienti e diffuse, in cui si circola velocemente e si gode di ottimi servizi; la Germania ha agito per fare del suo Sud, la ex Germania dell’Est, una nuova leva di sviluppo a vantaggio dell’intera nazione. E’ sicuramente anche per questo che oggi l’Europa viaggia a due velocità, ma quella che corre meglio è quella che ha saputo distribuire le risorse, determinare sviluppo diffuso ed evitare le chimere dei TAV e delle grandi opere utili solo alle società di capitale.
Domenico Gattuso
Ordinario di Ingegneria dei Sistemi d Trasporto Università Mediterranea di Reggio Calabria
Presidente del CIUFER, Comitato Italiano Utenti delle Ferrovie Regionali