I dati Istat sulle politiche di coesione nel Mezzogiorno dal 2000 a oggi restituiscono un quadro estremamente preoccupante: occorre una potente inversione di tendenza
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C'è un'evidente rumorosa discrasia fra i contenuti del confronto politico regionale calabrese e la drammaticità dei dati e delle analisi che provengono dalle statistiche ufficiali. La situazione comincia a essere molto preoccupante perché denota uno scollamento eccessivo tra la realtà, che continua a manifestarsi con tinte fosche, e il modesto livello della dialettica politica nel suo complesso. La politica politicante, impegnata in un teatrino giunto al record di repliche, sembra voler ignorare i segnali chiari, illuminanti ed evidenti che imporrebbero potenti mutamenti di rotta.
Una lettura attenta della recente indagine Istat intitolata “La politica di coesione e il Mezzogiorno: vent'anni di mancata convergenza” fa accapponare la pelle e induce quasi allo sconforto. La politica di coesione - precisa l'Istat - rappresenta la principale azione di investimento dell’Unione europea (i tanto richiamati fondi comunitari!) e si pone da decenni l’obiettivo di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle regioni. La Polonia, la Spagna, l’Italia e la Romania sono gli Stati membri maggiormente coinvolti.
Ascoltate la precisazione dell'Istituto nazionale di statistica, un monito indiretto per chiunque volesse aggrapparsi a un'improbabile “ambiguità” dei numeri: per gli ultimi tre cicli di programmazione della politica di coesione (2000-2006, 2007-2013 e 2014-2020) è possibile avere un quadro statistico pressoché completo e osservare, attraverso l’andamento del Pil pro capite a parità di potere di acquisto (ppa), se vi sono stati processi di convergenza fra le regioni e i territori degli Stati membri. Come dire: i fatti sono fatti, e sono seri, documentati, studiati con rigore. Tra il 2000 e il 2021 - ammonisce l'Istat - si è realizzato solo parzialmente un processo di avvicinamento, che ha interessato in particolare le regioni che partivano da livelli più bassi di reddito, quasi tutte appartenenti agli Stati membri dell’Europa orientale.
La mancata convergenza ha penalizzato le economie regionali, oltre a quella della Grecia, anche della Francia, della Spagna e, soprattutto, dell’Italia. Non si è verificato il processo di convergenza delle regioni italiane classificate come “meno sviluppate” (pressoché quasi tutto il Mezzogiorno d’Italia ad eccezione dell’Abruzzo), che hanno continuato a crescere sempre molto meno della media dei Paesi dell’Ue27. Avete letto bene? Miliardi e miliardi di euro di fondi europei, a partire dal 2000, non hanno ottenuto l'auspicato obiettivo di convergenza, cioè di uno sviluppo economico-sociale tale da avvicinare il Sud Italia, e quindi la Calabria, agli standard delle regioni più ricche d'Europa. Si badi bene: non agganciarle e raggiungerle, ma è fallito il solo tentativo di avvicinarsi. I dati ufficiali parlano di ulteriore allontanamento dal valore medio europeo, tant'è che mentre nel 2000 nessuna regione italiana per Pil pro capite in ppa era compresa fra le ultime 50 dell'Ue, nel 2021 fra le ultime 50 se ne trovano ben quattro: Puglia, Campania, Sicilia e Calabria. E la Calabria è l'ultima tra le quattro!
Il divario crescente in termini di reddito (misurato in Pil pro capite in ppa) fra le regioni italiane economicamente meno avanzate e l’Ue27, è spiegato interamente - sottolinea l'Istat - dal tasso di occupazione, inferiore alla media Ue di ben 20 punti percentuali. Ma non è tutto, perché il futuro che abbiamo di fronte è ancora più buio: infatti, le recenti tendenze demografiche in atto in Italia, in particolare nel Mezzogiorno, fanno presupporre che invecchiamento e spopolamento possano in futuro contribuire ad ampliare i divari in termini di reddito con il resto d’Europa.
Le simulazioni effettuate mostrano in assenza di interventi sull’occupazione e sulla produttività - sentenzia l'Istat - che la forbice con l’Ue, nel 2030, è destinata ad allargarsi pressoché ovunque in Italia e in particolare nelle regioni del Mezzogiorno. Urliamolo forte: le chiacchiere stanno a zero, occorre svegliarsi al più presto! Il tasso di occupazione nelle regioni italiane meno sviluppate ha registrato negli ultimi tre cicli di programmazione un andamento di gran lunga meno positivo rispetto sia al dato nazionale, sia al dato medio dell’Ue27. Infatti, mentre nell’Ue27 vi è stato un pressoché costante incremento fino a giungere a un tasso di occupazione di poco sotto il 70% nella fascia di età 15-64 anni, in Italia il tasso di occupazione è aumentato in media di poco meno di due punti percentuali. Purtroppo nelle regioni meno sviluppate italiane vi è stato invece un lento ma costante declino nei due cicli di programmazione 2000-2006, 2007-2013, determinato in particolare da Campania, Calabria e Sicilia: in queste regioni il tasso di occupazione si è ridotto di ben 2 punti percentuali.
Il dato complessivo delle regioni meno sviluppate italiane rimane inferiore di oltre 20 punti percentuali rispetto alla media Ue27 e di ben oltre 10 punti inferiore al dato medio italiano. Avete letto bene? Rifiatate e procediamo oltre. Nei quattro cicli di programmazione degli investimenti Ue per le politiche di coesione 2000-2006, 2007-2013, 2014-2020, 2021-2027 la Calabria - spiega sempre l'Istat - ha mantenuto un Pil pro capite inferiore al 75% della media Ue. Sempre nei quattro cicli il tasso di occupazione della Calabria è rimasto molto al di sotto della media Ue attestatasi tra il 61,8 e il 68,4: 42,8 nel 2000-2006; 42,2 nel 2007-2013; 40,6 nel 2014-2020; 42,00 nel 2021. E il valore calabrese è rimasto al di sotto persino della media delle regioni meno sviluppate d'Italia, oscillante fra il 43,0 e il 44,3. Nell’Ue27, invece, vi è stato un pressoché costante incremento fino a giungere ad un tasso di occupazione di poco sotto il 70% nella fascia di età 15-64 anni.
Istat ha messo in luce come questo quadro negativo sia collegabile anche alle preoccupanti dinamiche del trend demografico, con una Calabria passata dai 2 milioni di abitanti nel ciclo di programmazione 2000-2006, a 1 milione e 860mila del 2021. La previsione demografica per il 2030 è uno “tsunami”: 1 milione e 750mila abitanti in Calabria nel 2030, cioè un'ulteriore perdita di oltre 100mila residenti. Avverte la Ue: «Assumendo che le dinamiche demografiche in Italia seguano il trend delineato nelle previsioni e in assenza di interventi che incidano significativamente e positivamente sulla produttività e/o sul tasso di occupazione, la semplice traiettoria demografica calante avrebbe un impatto negativo sul Pil pro capite. Ciò determinerebbe un ulteriore e nuovo ampliamento nelle divergenze territoriali rispetto al dato europeo. Il processo di convergenza territoriale tenderà ad allentarsi ulteriormente, per via della dinamica demografica, con una crescente disparità territoriale che colpirà in particolare le regioni meno sviluppate le quali si allontaneranno ancor più dal reddito medio dell’Ue».
Rispetto a questa situazione nera come l'ottimo carbone che si produce nelle Serre, e di previsioni oggettivamente fosche, cosa fa la politica calabrese? Rispondete da soli e riflettete: di fronte a un dramma tanto evidente e allarmante il livello generale del dibattito politico regionale vi sembra adeguato? Non amiamo generalizzare né disconoscere i meriti di qualcuno che li ha, ma solo lanciare un rumoroso “Sos” che deve imporre a tutta la società calabrese, proprio a partire dalla politica, e proseguendo con imprese, sindacati, università e qualsivoglia soggetto sociale attivo, l'acquisizione di una consapevolezza: la Calabria non è ferma, ma addirittura arretra, e tutto quanto abbiamo fatto dal 2000 a oggi, investendo i fondi comunitari, non è stato sufficiente a farci muovere passi in avanti. Nel 2030, se non ci saranno potenti inversioni di tendenza, la Calabria conterà oltre 100mila residenti in meno, avremo ancora meno occupati, la popolazione sarà più anziana, ed evidentemente saremo ancora meno attrattivi e senz'altro più poveri. Vogliamo parlarne? Le polemiche sterili non servono, né la demagogia a tanto al chilo. Si impone, però, una profondità di pensiero degna delle sfide difficilissime che incombono.