Ombrelloni e lettini valgono il 12% dell’economia turistica regionale (mezzo miliardo di euro), ma per i lavoratori stagionali vale la regola del grigio. La Cgil: «Punte del 70% di irregolarità. Nel Reggino la situazione più grave»
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File di ombrelloni e di cabine colorate, distese di lettini e salotti in finto vimini, grappoli di pizzerie, bar, ristoranti e discoteche: chilometri e chilometri di spiagge tutte uguali, sacrificate (a prezzo di costo) sull’altare di un settore, quello dei balneari, più che raddoppiato nei numeri negli ultimi 15 anni e che, da solo, vale il 12,5% dell’intera economia turistica regionale. Più di 1500 aziende, migliaia di addetti e un fatturato, stimato al ribasso, di quasi mezzo miliardo di euro per uno dei settori trainanti della traballante economia regionale. Un comparto che ha registrato nell’ultimo decennio una costante espansione e che continua a crescere in modo disordinato e (spesso) fuori dalle regole, con oceani di lavoro grigio (e nero) e scarsissimo rispetto per le basilari regole del mercato (con concessioni che vantano durate pluridecennali) e dell’ambiente.
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I numeri
La Calabria è la Regione che ha fatto registrare il maggior numero di nuove aziende nel settore degli stabilimenti balneari tra il 2011 e il 2021. Uno studio di Unioncamere racconta che delle 646 imprese che operano in modo esclusivo sulle nostre spiagge (a questo numero vanno aggiunte tutte le altre imprese, quasi altre mille, per cui lo sfruttamento della spiaggia è solo uno dei rami d’azienda) ben 328, più del 100% di aumento, sono nate nell’ultimo decennio. Un’accelerazione che non conosce pari nel resto del Paese (in Campania, regione che si assesta al secondo posto per crescita, i nuovi stabilimenti sono stati solo 184 nel medesimo arco di tempo) e che non prende in considerazione la variegata galassia di concessioni legate ad attività collegate al turismo del mare. Sono ristoranti, hotel, B&B, villaggi turistici, campeggi, persino bar. Un esercito di attività che ingrossa il settore ma che si muove a velocità diverse sul territorio regionale e che è difficile anche tenere sotto controllo vista la scarsità di numeri disponibili.
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Uno studio della Camera di Commercio di Reggio è riuscito a certificare 1.018 aziende a vario titolo coinvolte nella gestione delle spiagge sul territorio regionale (ma il numero non prende in considerazione molte imprese catalogate con altri codici identificativi e ugualmente operanti sulla spiaggia). È Cosenza a tirare il gruppo, per distacco, con 508 stabilimenti tra Jonio e Tirreno. Seguono Catanzaro (213), Reggio (178), Vibo (65) e Crotone con 54 stabilimenti. Lidi, baracchini e stabilimenti (almeno quelli che non sono sfuggiti alle statistiche) che hanno già colonizzato quasi 1,5 milioni di metri quadri del nostro arenile: un dato che fa a pugni con le dichiarazioni rimbalzate un po’ ovunque in questi giorni (presidente Occhiuto in testa) che raccontano di una Calabria “vergine”. Le concessione di una buona fetta di spiagge calabresi ai privati, fruttano al demanio dello Stato la miseria di 1,2 milioni euro all’anno (a cui si deve aggiungere il 15% di addizionale regionale che finisce nelle casse della Cittadella). Un canone decisamente basso che, in marcata controtendenza, ha subito per la stagione 2024 una flessione del 4,5% rispetto all’anno precedente, fissando il canone minimo – quello destinato alle aziende sotto i 4 mila metri quadri, che in Calabria significa oltre il 90% delle imprese – in appena 3.225 euro all’anno. Spiccioli, considerando che, dice ancora UnionCamere, dei 93 euro giornalieri che, in media e senza contare le spese per il viaggio e per l’alloggio, il turista spende sul territorio regionale, quasi 13 finiscono nelle casse di uno dei tanti lidi presenti in regione.
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L’oceano di grigio
Con una media regionale di circa sei addetti per ogni stabilimento, quello sulle spiagge è diventato uno dei settori con maggiori capacità di assorbimento lavorativo in regione, seppure solo a livello stagionale. Un piccolo esercito di bagnini, baristi, cuochi, paninari, animatori e camerieri che affonda sotto il peso delle irregolarità contrattuali, dove il lavoro grigio è la regola e il nero resiste, soprattutto nel caso degli extracomunitari, nelle cucine e tra i lavoratori che si occupano di sistemazione e pulizia della spiaggia. È Reggio la provincia su cui si registrano i problemi maggiori che sono comunque comuni su tutto il territorio regionale.
Cosimo (lo chiameremo così) è un calabrese di quasi 50 anni. Da più di 15 lavora nel comparto turistico, alternandosi tra la cucina e la sala di tantissimi stabilimenti del reggino. «Ho iniziato come apprendista ovviamente in nero, poi con il tempo il mio lavoro ha cominciato ad essere apprezzato e il mio nome ha iniziato a girare tra i gestori dei lidi. Trovo sempre lavoro e da qualche anno anche con un contratto. Il problema è che le ore che mi vengono conteggiate in busta paga sono meno della metà di quelle che svolgo nella realtà. Un paio di anni fa – racconta chiedendo di mantenere l’anonimato – ero un po’ a corto di soldi e ho accettato due diversi lavori in due strutture diverse. Nel pomeriggio fino a dopo cena da una parte, da dopo cena fino all’alba dall’altra. Sette giorni su sette, fino alla fine della stagione, anche se sui due contratti raggiungevo complessivamente appena le sei ore di lavoro al giorno. E per il compenso, quanto stabilito dai contratti me lo ritrovavo in busta, il resto in nero». Una situazione che ovviamente non vale per tutte le imprese ma che, soprattutto in alcune province, sembra essere ancora la normalità.
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«Il settore turistico è quello in cui si registrano alcuni dei risultati peggiori per il rispetto dei diritti dei lavoratori – dice a LaC News24 il segretario regionale della Filcam Cgil, Giuseppe Valentino – e la Calabria purtroppo è la regione dove le cose stanno messe peggio. Dai dati in possesso del sindacato, stimiamo che tra i lavoratori stagionali che prestano servizio nei lidi calabresi, si registrano picchi del 70% di lavoro grigio. In questo settore i lavoratori sono storicamente debolissimi e per molti di loro è quasi normale, a causa del bisogno, accettare contratti che prevedono molte meno ore di quelle effettivamente lavorate. Quest’anno abbiamo lanciato la campagna “a muzzo” con cui raccogliamo testimonianze ed esperienze di questi lavoratori sfruttati per intervenire a stagione in corso. Perché purtroppo vengono da noi solo quando la stagione è finita e l’azienda ha chiuso. A quel punto è difficile riscontrare le irregolarità».