L’economia è sempre stato un argomento complicato, tra grafici, percentuali, ricchezza pro capite e mille altri parametri. Ma tutto si fa semplice quando il concetto si riduce all’osso del semplice “dare-avere”. Così, è estremante facile cogliere la gravità di una situazione che vede la Calabria tra le regioni d’Italia dove si pagano più pensioni che stipendi. Il dato emerge dall’Ufficio studio della Cgia di Mestre, che periodicamente sforna interessanti ricerche sul quadro economico nazionale. Al centro dell’ultimo di questi report c’è il confronto tra il numero delle pensioni erogate e quello degli occupati. E se «a livello nazionale il rapporto ormai è di uno a uno – si legge nel documento di sintesi -, nel Mezzogiorno, invece, il sorpasso è già avvenuto». In Italia, infatti, le pensioni erogate sono 22.772.000 a fronte di 23.099.000 occupati regolari, mentre «nelle regioni del Sud e delle Isole le pensioni pagate ai cittadini sono 7.209.000, mentre gli addetti sono 6.115.000».

Calabria in fondo alla classifica

La Calabria, in particolare, occupa il terzultimo posto della classifica nazionale, con 755mila pensioni erogate e 529mila occupati, per un saldo negativo di 226mila lavoratori in meno rispetto alle prestazioni pensionistiche erogate. Peggio fanno solo la Puglia e la Sicilia, con saldi negativi pari a 227mila e 303mila. In cima alla classifica, invece, svetta la Lombardia, dove si contano 733mila occupati in più rispetto ai pensionati, che sono 3.692.000.

Il gap provincia per provincia

Tra le cinque province calabresi, la differenza maggiore prende forma a Reggio Calabria, quarta in Italia, con 225mila pensionati e 140mila occupati (-85mila). Risalendo la classifica troviamo Cosenza (270mila contro 197mila), Catanzaro (137mila pensionati a fronte di 107mila occupati), Crotone (60mila a carico dell’Inps contro 40mila al lavoro) e, infine, Vibo Valentia la provincia dove il saldo negativo è minore (18mila, la differenza tra 64mila pensionati e 45mila occupati).

Risultati preoccupanti, scrive la Cgia di Mestre, che «dimostrano con tutta la loro evidenza gli effetti provocati in questi ultimi decenni da tre fenomeni strettamente correlati fra di loro: la denatalità, l’invecchiamento della popolazione e la presenza dei lavoratori irregolari. La combinazione di questi fattori sta riducendo progressivamente il numero dei contribuenti attivi e, conseguentemente, ingrossando la fila dei percettori di welfare».

Ingiustizia sociale

Difficile uscirne, perché «soluzioni miracolistiche non ce ne sono e ancorché fossero disponibili i risultati li avremmo non prima di 20-25 anni». Ma ciò non vuol che non si debba cominciare a far qualcosa, anche per rispondere a elementari principi di giustizia sociale, perché risulta sempre più insopportabile che i “pochi” che pagano interamente tasse e contributi previdenziali portino sulle spalle tutto il peso dello welfare italiano.

Le soluzioni

«Il trend può essere invertito in tempi medio-lunghi – spiega la Cgia - solo allargando la base occupazionale. Innanzitutto portando a galla una buona parte dei lavoratori “invisibili” presenti nel Paese», cioè coloro che lavorano a nero, che secondo l’Istat, ammontano a circa 3 milioni di persone. «È altresì necessario prosegue il report - incentivare ulteriormente l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, visto che siamo fanalino di coda in Europa per il tasso di occupazione femminile (pari al 50 per cento circa). Inoltre, bisogna rafforzare le politiche che incentivano la crescita demografica (aiuti alle giovani mamme, alle famiglie, ai minori, etc.) e allungare la vita lavorativa delle persone (almeno delle persone che svolgono un’attività impiegatizia o intellettuale). Da ultimo è necessario innalzare il livello di istruzione della forza lavoro che in Italia è ancora tra i più bassi di tutta l’Ue. Se non faremo tutto ciò in tempi relativamente brevi, fra qualche decennio la sanità e la previdenza rischiano di implodere».

Insomma, non è affatto facile cambiare le cose, ma di certo non è impossibile, se si lavorasse prima di tutto su un radicale cambio culturale che riconduca questi obiettivi nell’orizzonte di un Paese definitivamente modernizzato e solidale con se stesso.