Secondo una recente ricerca Svimez sono circa 500mila gli ingressi a musei e parchi archeologici, mentre l’anfiteatro Flavio che domina la Capitale nello stesso periodo è stato meta di 7 milioni di persone. Soltanto 7mila i biglietti staccati nel Parco della Sibaritide, il più esteso d’Europa ma spesso allagato per l’incapacità di salvaguardalo e valorizzarlo
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Pensate ad avere un grande baule pieno di monete d’oro, di pietre preziose, di gioielli meravigliosi. Insomma un tesoro. E pensate di limitarvi a sederci sopra, come fareste su una vecchia panca, senza mai aprirlo, senza mai rimirare cosa c’è sotto il pesante coperchio. La Calabria è ancora questo: un tesoro che resta chiuso nel suo baule, inaccessibile e inutile.
Secondo l’ultimo rapporto Svimez, nel 2017 i visitatori di tutti i musei e siti archeologici della Calabria sono stati meno di mezzo milione, per la precisione 489.202. Nello stesso anno, per offrire il massimo termine di comparazione in Italia, i visitatori del solo Colosseo sono stati circa 7 milioni. Non certo un paragone possibile, ma utile per rendere la distanza incolmabile. Una cifra enorme se messa a confronto con il numero di coloro che hanno deciso di fare un salto al museo di Reggio Calabria per dare un’occhiata ai quei capolavori immensi che sono i Bronzi di Riace: appena 216mila. “Appena” si fa per dire, perché col metro di misura calabrese è già uno straordinario successo, che balza agli occhi in tutto il suo paradosso se si considerano i visitatori di un intero anno, sempre lo stesso, registrati dal museo del museo della Sibaritide, 12.105, dell’omonimo Parco archeologico, visto soltanto da 7.462 persone. D’altronde a chi verrebbe in mente di visitare qualla che nei giorni peggiori è una palude, pronta a trasformarsi in una distesa di fango rappreso appena rispunta il sole.
Quello di Sibari è il sito archeologico più grande del meridione, tra i più estesi d’Europa, e conta i resti di tre città magnogreche. Ma la Calabria e l’Italia non sono capaci neppure di tenerlo all’asciutto. Nel 2013 l’esondazione del fiume Crati provocò danni immensi, allagando il parco e, una volta ritiratesi le acque, lasciandolo prigioniero di metri e metri di melma che in breve divenne dura come roccia. In poche ore di pioggia scomparvero Sybaris, antica colonia achea del 720 a. C, Thurii, fondata nel 443 a. C., e la polis romana di Copia, costruita nel 194 a. C. Ci vollero 18 milioni di euro di euro di fondi europei e anni di lavoro per liberare parzialmente il sito dal fango secco e riaprirlo a quei quattro gatti avventurosi che avessero avuto in animo di visitarlo. Poi, alla fine del 2018 - anno in cui il Colosseo ha incrementato del 7,4% i visitatori, toccando quota 7,6 milioni - il Parco archeologico di Sibari è finito di nuovo sottacqua, a causa di nuove alluvioni e dalla scarsa efficienza delle trincee drenanti che avevano sostituito le vecchie pompe idrauliche (ne abbiamo scritto qui). Insomma, punto e accapo, anche se il nuovo disastro non ha avuto fortunatamente la dimensione biblica del primo.
Non ci si può meravigliare, quindi, se la Calabria resta famosa nel mondo non tanto per il suo straordinario patrimonio archeologico e paesaggistico, ma per quello che si mangia. Il New York Times, sempre con riferimento allo stesso anno della ricerca Svimez pubblicata recentemente, ha citato la Calabria tra le 50 mete più ambite per motivi prettamente enogastronomici. Magra consolazione, ma neppure troppo se si considerano le calorie di alcune pietanze calabresi. Davvero poco, comunque, per una regione che continua a restare seduta sul suo tesoro, incapace di spendere bene anche una sola di quelle monete d’oro che continua a ignorare.