Dai lunghi anni trascorsi in Calabria alla spinosa faccenda dell'archivio personale, passando per la memoria corta delle kermesse blasonate nel centenario della nascita del regista e padre dei documentaristi italiani. Parla l'attrice ed erede del suo patrimonio artistico
Tutti gli articoli di Cultura
PHOTO
Aveva un Fiorino con cui andava in giro per la campagna di Sellia. Si alzava all’alba, preparava un caffè d’orzo e usciva a prendere i giornali. Un ritratto semplice di un autore geniale: Vittorio De Seta. Lo traccia col sorriso nella voce, sua nipote Vera Dragone, attrice, erede del patrimonio artistico del "padre dei documentaristi italiani" di cui ricorrono i cento anni dalla nascita. Porta lo stesso nome della nonna, Vera Gherarducci, con cui il regista condivise la passione per il cinema.
In un'intervista, che mi concesse anni fa, raccontò di quando decise di tornare in Calabria. «Nel 1981 decisi di venire a vivere nella tenuta di mia madre. Per dodici anni smisi di fare cinema. Fu un periodo particolare, difficile. Mi dedicai alla terra, feci il contadino, coltivavo e mi occupavo degli ulivi. E poi dopo molto tempo girai il documentario “In Calabria”». Una montagna imprecisata della Sila, un gregge, il silenzio niveo del paesaggio d'inverno, mani ruvide rovistano nel siero per preparare la ricotta, sono sequenze incastonate nel documentario “In Calabria”.
Aveva la pelle dura, De Seta, e un carattere non incline al lamento. La dimostrazione è quel “Lettere dal Sahara” presentato fuori concorso alla Mostra internazionale del cinema di Venezia che la Rai gli rifiutò e che solo Martin Scorsese riuscì a sbloccare dalle beghe di produzione. «Non è facile fare un film in Italia - mi raccontò -. Non è come in Francia. Lì gli artisti vengono valorizzati qua non vengono tenuti in nessun conto». La carriera artistica di De Seta non è mai stata in discesa. «“Lettere dal Sahara” dopo il passaggio al festival di Venezia è passato sotto silenzio - mi raccontò -. È un film educativo che parla di immigrazione, integrazione ma ad esempio la Rai l’ha rifiutato. Così abbiamo organizzato una proiezione per una scuola media qui in Calabria. I ragazzi hanno guardato tutto il film in silenzio partecipando attivamente al dibattito. È un segno che sono temi che interessano ed è sbagliato pensare che un certo tipo di cinema non sia adatto ai giovani».
I banditi di De Seta e Easy Rider
“Banditi a Orgosolo”, film del 1961 segna una tappa fondamentale della vita artistica di De Seta. La pellicola che ispirerà il film cult “Easy Rider”, è scritta a quattro mani con la moglie Vera e si aggiudicò il premio Opera prima al Festival di Venezia e il Nastro d'Argento alla migliore fotografia. «E pensare che si trattava di una produzione quasi artigianale, come la maggior parte dei miei lavori - mi disse -. Partimmo da Roma con una troupe di sole quattro persone. Questo è il mio cinema: idee e pochi mezzi».
L'idea di un film collettivo
Qualche evento l’ha ricordato nella Calabria che ha accolto i suoi ultimi anni. Un’iniziativa a Catanzaro, la mostra "Vittorio De Seta Lettere dal sud" e l'audiovisivo "Lettere dal Sud /Visioni fuori luogo" a Sellia Marina, realizzate direttamente dalla Cineteca della Calabria e dall'Istituto de Nobili di Catanzaro, hanno scongiurato il rischio che l’anniversario passasse inosservato e invisibile.
Pare che si culli il progetto, in Calabria, di girare un film collettivo per omaggiare il regista, autore di capolavori come "Lettere dal Sahara" e "Lu tempu di li pisci spata". Mentre la Calabria ancora non dimentica, L’Italia, però, pare aver cancellato dalla memoria l'autore. «Mi sarei aspettata un omaggio a mio nonno al festival del cinema di Venezia o di Roma, invece niente» dice con amarezza Vera Dragone.
L’Italia ha la memoria corta.
«Per fortuna c’è chi non dimentica. Il 14 dicembre il cinema Aquila organizzerà una serata in suo omaggio con l’appoggio di Mimmo Calopresti».
Cosa ci ha lasciato Vittorio De Seta?
«Il suo occhio, la sua cultura, la sua attenzione».
E a lei?
«Qualche guaio di troppo, sfortunatamente».
Cosa è accaduto dopo la sua morte?
«Sono stata nominata da lui erede e amministratrice dei suoi beni, questo ha "congelato" la mia vita per molti anni a causa di circostanze sorte dopo la sua morte, davvero poco piacevoli».
Di che si tratta?
«Mio nonno era un grande artista ma un pessimo amministratore dei suoi beni. Dopo la sua scomparsa mi sono trovata a fronteggiare diverse cause che solo adesso sono in corso di risoluzione. Ma è stata dura, durissima. È stato un periodo che mi ha sfinita».
E ora?
«E ora stiamo raccogliendo quanto di buono è rimasto, mi sono ripresa la mia vita. Purtroppo la casa in Calabria di mio nonno non c’è più, ho restituito le chiavi ai legittimi proprietari, ho mantenuto solo quella in cui stavo con mia madre. È andata così. Ma quello che mi fa più male è altro, ed è un peso sul cuore enorme che riguarda l’archivio di nonno».
Non ne ha lei la disponibilità?
«Non più. Nonostante mio nonno mi avesse nominato come sua erede e amministratrice, è successo qualcosa di spiacevole di cui ancora pago le conseguenze».
Le va di raccontarlo?
«Mia madre non sta molto bene, ha un male che la affligge da anni. È certificato, ci deve convivere, e anche io. Nel 2016 mi hanno ricoverato, dovevo partorire. Proprio in quei giorni la Cineteca di Bologna, con cui avevo già parlato in passato mentre vagliavo tutte le possibilità per la conservazione dell’archivio di nonno, decise di affrettare le cose e agire senza consultarsi con me. Chiamarono mia madre, che non era in grado di fare certe valutazioni, si accordarono con lei, vennero in Calabria e portarono via tutto. Tutto. Quando ritornai a casa col mio bimbo appena nato, mi accorsi che non c’erano più neanche le fotografie di famiglia».
Le foto personali?
«Tutto. Le sceneggiature, gli appunti, le pellicole e anche lettere private, fotografie, diari. Un pezzo della mia famiglia mi è stato sottratto senza che potessi dire una parola. Provo tanto dolore quando ci ripenso, ma non può finire così, non deve finire così. È giusto che ci sia qualcuno, un ente, una fondazione, che conservi il materiale filmico affinché non si perda, su questo non posso che essere d'accordo, però non così, non con queste modalità».
Nel 2016, dalle pagine di Calabria Ora, Martin Scorsese pianse la scomparsa di De Seta che considerava un maestro. Scrisse: «Sono rimasto scioccato dalla notizia della morte di Vittorio De Seta. La sua vita è stata lunga e sana, e l’ultima volta che lo vidi, solo qualche anno fa, sembrava che gli rimanessero da vivere altri 50 anni, scoppiava di energia creativa. De Seta è uno dei più grandi, ma trascurati, registi italiani, e il suo lavoro meriterebbe di essere molto più conosciuto di quanto non sia. Negli anni ‘60, lo conoscemmo attraverso il suo straordinario “Banditi a Orgosolo”. Ma dopo, molti anni dopo vedemmo i suoi documentari a colori che girò negli anni ‘50, poetiche cronache di vita nell’Italia del sud, della Sardegna e della Sicilia. Chi vide queste immagini, prima note solo a pochi, ne rimase ammaliato. Sono registrazioni preziose di costumi e modi di vivere che stavano scomparendo. (...) Nel loro insieme, esse sono una delle meraviglie del cinema. Vittorio De Seta fu veramente un grandioso, dinamico artista, e io piango la sua scomparsa».
«Ricordo quell’omaggio. Scorsese ha sempre amato nonno con un trasporto incredibile. Ricordo che ero al terzo o quarto anno di liceo, quando andai New York. Mio nonno Vittorio era stato invitato al Tribeca Film Festival e mi chiese di accompagnarlo. Ero così emozionata, e anche lui. Lo aiutavo con l’inglese perché lui parlava solo francese, e mi sembrava quasi sperso nella grande Manhattan. Appena giungemmo al teatro, ricordo che Scorsese gli andò incontro con un grande sorriso e lo abbracciò stretto. La stima, l’affetto che provava verso nonno erano evidenti, sinceri, commoventi».
Qual è l’opera di suo nonno che le è più cara?
«Credo “Diario di un maestro”. Esistevano sì un soggetto e una sceneggiatura, ma gli attori andavano a braccio. Si parlava dei ragazzi della scuola Tiburtino III, all’epoca quelli che non andavano bene a scuola li ghettizzavano. Questo provocava un isolamento deleterio, un malanimo, le loro condizioni peggioravano. Nel film c’è questo maestro, interpretato da Bruno Cirino, che al contrario di altri, cerca di parlare con loro, di capire i problemi, di coinvolgerli. Credo sia davvero una lezione potente quella che dà il film, molto attuale».
Se fosse qui, davanti a lei, cosa direbbe a suo nonno?
«Non è semplice… non è affatto semplice. Forse gli direi: nonno, mi hai lasciato in bei casini, ma ti perdono. Ci siamo voluti troppo bene e io te ne vorrò per sempre».