Sventola accanto a quella italiana e quella europea la bandiera armena, sul balcone di palazzo San Giorgio, sede dell'amministrazione comunale di Reggio Calabria, in segno di vicinanza ad un popolo che ancora sfida l'oblio della storia, la negazione del genocidio per mano dell'ex impero ottomano, iniziato proprio il 24 aprile 1915, durante la Prima guerra mondiale. Il primo genocidio del Novecento.

Dopo l'audizione nell’ottava commissione consiliare Pari Opportunità, Pace, Diritti umani, Relazioni internazionali e Immigrazione del Comune reggino, in occasione della quale sono stati ascoltati Sebastiano Stranges, studioso e archeologo, e Carmine Verduci, fondatore della comunità armena di Calabria, la bandiera posta fuori dal palazzo comunale, rappresenta un significativo segno di vicinanza al popolo Armeno nel percorso di affermazione di una storia negata e il riconoscimento di un legame antico tra esso e la nostra terra.

L'anima armena della Calabria

Un popolo che conobbe la persecuzione anche prima del Novecento, durante la nuova ondata anti cristiana di siriani e turchi islamizzati, verso la fine dell’VIII secolo d.C.. Fu allora che gli armeni discesero l'Italia e, lungo la costa Ionica, arrivarono in Calabria, rifugiandosi sulle alture. Pare che un gruppo si fosse raccolto in solitaria preghiera tra le montagne - secondo le regole del monachesimo orientale diffusosi anche in Armenia grazie all’opera di San Basilio - per sfuggire alle incursioni degli arabi provenienti dal mare. Qui coltivarono usi e tradizioni religiose e intrapresero attività agricole come la vinificazione, con la creazione di veri e propri silos per custodire le derrate alimentari. Di questi ultimi tracce esistono ancora tra i ruderi di Brancaleone Vetus, a Reggio Calabria.

Segni significativi di questo passaggio sopravvivono oggi nella toponomastica (la Discesa Armena a Bova o la Rocca Armena a Bruzzano Zeffirio), nell’onomastica e nell’archeologia negli attuali comuni di Ferruzzano, Bruzzano Zeffirio, Brancaleone Vetus e Staiti, territori in cui palpita la memoria della Valle Armena.

In particolare la Rocca Armena custodisce in una grotta segni di celebrazioni religiose tipiche della cultura del più antico popolo Cristiano. Tra i ruderi di una chiesa rupestre, probabilmente unica nel suo genere a queste latitudini e di cui ne esisterebbe una simile solo in Georgia, vi sono i resti di un antico altare e, sul muro di antica arenaria, è possibile ancora intravedere una Croce armena e un Pavone adorante, caratteristici della cultura armena.

La Valle Armena nel Reggino

«La nostra ricerca - ha spiegato Carmine Verduci, fondatore della Comunità armena di Calabria, - che ormai prosegue da anni con l'aiuto di studiosi, storici e appassionati, porta continuamente alla luce tracce di questa permanenza armena in Calabria: da Amendolara nel cosentino fino a Zungri nel vibonese, da Curinga nel catanzarese fino a Caccuri nel crotonese, dove sono in corso approfondimenti, oltre che nel reggino da dove il nostro viaggio dentro questa storia è partito. Per non dimenticare il genocidio armeno, in questa data ma non solo, da anni promuoviamo un percorso escursionistico, che presto diverrà itinerario europeo, nella Valle Armena. Lo proporremo, in chiave turistica, anche domani e sarà la nostra prima uscita dopo lo stop della pandemia. È il nostro contributo al riscatto di una storia negata e delle dimenticate tracce di un popolo antico» ha sottolineato ancora Carmine Verduci.

La negazione del genocidio e il riscatto dall'oblio

Soltanto nel 2015, proprio in prossimità della giornata (24 aprile) che oggi coincide anche con la Pasqua Ortodossa, il Parlamento Europeo riconosceva ufficialmente il genocidio con apposita risoluzione. Solo qualche settimana prima, Papa Francesco lo aveva ricordato come il genocidio del primo popolo Cristiano della storia. Soltanto lo scorso anno gli Stati Uniti, con Joe Biden presidente, hanno compiuto il passo del riconoscimento, dopo il precedente affossamento della mozione con la presidenza Trump.

Un milione e mezzo è il numero massimo delle vittime ipotizzato. Non c’è unitarietà sulle cifre di un massacro che la Turchia di Erdogan, invece, ancora nega classificandolo come guerra civile dentro la guerra mondiale.

La prima testimonianza, ancora oggi dirompente, della deportazione e del massacro degli armeni è quella dell’intellettuale e attivista per i diritti umani tedesco, infermiere volontario nella Prima guerra Mondiale, Armin Wegner morto a Roma nel 1978, nominato tra i Giusti tra le nazioni nel memoriale Yad Vashem, autore di un reportage fotografico consegnato al mondo che ignorava, e che avrebbe continuato ad ignorare ancora a lungo, le atrocità che si stavano consumando in Anatolia.

Il percorso di liberazione da un passato negato è ancora lungo. La delegittimazione e la mancata riconciliazione  impattano ancora molto sulla comunità. L’Armenia è una repubblica indipendente dal 1991. Lì si concentra la maggior parte della comunità con tre degli otto milioni di Armeni nel mondo. Corpose sono le comunità in Russia e Stati Uniti ma gli Armeni sono presenti anche in Georgia, Ucraina, Francia, Medio Oriente e in Italia, dove ne risiedono più di milleduecento.

La memoria che resiste

Il popolo Armeno sopravvissuto ricorda, racconta, tramanda e chiama quanto accaduto ‘medz yeghern’, il grande male perché, come ogni genocidio, quella atroce repressione era finalizzata non solo ad estinguere un popolo ma anche a cancellarne la civiltà millenaria, l'identità, la cultura dei luoghi, dei libri, della memoria. 

Ogni esilio che segue alimenta la nostalgia di chi non dimentica lo sradicamento da luoghi dell’anima ma impara la rinascita altrove. Essa risuona nelle parole di Antonia Arslan, scrittrice di origini armene residente a Padova: «Fin dalle prime deportazioni di gente strappata dai loro villaggi, il destino delle donne fu in un certo senso diverso da quello degli uomini. Questi ultimi furono brutalmente uccisi, le donne brutalmente sottomesse o accompagnate verso il nulla del deserto siriano. Furono loro a resistere e a conservare il senso di un’identità che altrimenti si sarebbe smarrita. Furono loro, nella memoria difesa, la prima luce che squarciò il buio armeno».