Ci sono degli angoli nascosti che diventano nidi in cui scivolano le cose importanti. Vanno giù, negli anfratti più bui della dimenticanza. Ma esistono, ci sono, la loro presenza ha un peso, solo che la coscienza non riesce più a individuarli, inscatolarli, sminuzzarli e vederli. Tra i ciuffi di polvere c’è anche il desiderio di essere, diventare. Quieto si annida, aspetta.

È così che diventa una smania travestita da ansia e fame, e per ritrovarlo e prenderlo tra le mani, la strada può essere molto più lunga di una vita. Così è in “Maizo”, la novella scritta dall’autrice Elena Giorgiana Mirabelli (edita da Zona42) che aveva stupito tutti con il sorprendente romanzo d’esordio “Configurazione Tundra” (Tunuè), un libro che respirava nel meridiano della metamorfosi di un sogno bagnato da un dolore antico quanto la nascita.

Nella sua ultima opera, presentata in anteprima all’Hub di Cosenza tra le musiche di Remo De Vico e le letture dell’attore Francesco Aiello, a raccontare la storia è una tartaruga, Maizo, un’entità, uno spirito guida che con distacco apparente diventa il narratore di stralci di vita tenera e già violata. Le visioni della scrittrice sono deflagranti, un coltello nella carne su un lampo di luce diretta che mostra nervi e sangue, senza censura, con coraggio limpido. In Eco, Mitja, Clio, i protagonisti della novella, c’è la sopportazione muta del dolore mentre l’innocenza sparisce metro a metro in una macelleria che seziona vite e porzioni di anima e poi le butta via. Tra i boschi di lecci, il profumo delle erbe selvatiche si consuma la corsa verso il Desiderio. Un concetto distillato che pare un luogo fisico più che un appagamento.

Tre ragazzini sono in fuga, assaggiano l’aria fuori dalle mura di un Istituto di correzione morale in cui si entra per indice di possibilità di errore (Ipe). Sono tre ragazzini che vogliono: chi un cervello che non dolga e la pianti di espandersi; chi un corpo nuovo, non più laido, da tempo logorato da un rituale di violenza; chi la parola strappata via in un giorno deciso. “Maizo” è un’immersione in un’acqua fredda, vai giù ad occhi chiusi, le braccia lungo il corpo, senti tutto il dolore che marcia dall’intestino fino alla testa, gli occhi sprizzano scintille sulla retina, e poi c’è la riemersione con tutto il carico di un calore che pare innaturale e ingiusto. Sotto, il ghiaccio era diventato un ventre accogliente, e alla fine si soffre la mancanza di quella voce quasi aliena che dall’orrore ha tolto la veste pesante, mostrandone solo uno scheletro sottile, duro e grigio come acciaio. L’incubo dell’innocenza stracciata ci sbatte in faccia una realtà, che sì è distopica, sì va per controriflessi di inventato, verosimile, possibile, inimmaginabile, sì non ti fa sentire al sicuro ma sempre scomodo, mai abbastanza riparato da nessuna forza immanente, ma è una realtà così vicina che è quasi familiare, in un modo o nell’altro. Come certi incubi che da piccoli ci hanno scaldato anche se l’acqua era tanto fredda.