«Egli, quando incontrava un asino, lo salutava chiamandolo “fratello”. Fratello di latte. Ci teneva a fare sapere che era stato svezzato con il latte d’asina della povera campagna aspromontana. Un modo ironico per non rinnegare le proprie radici. Le tanto bistrattate radici. E già, perché Totò Delfino nacque a Platì la cui montagna scorgeva dalla sua casa di Bovalino Marina. Il 22 settembre è ricorso appunto l’anniversario dalla sua scomparsa. L’eclettico personaggio si è spense all’età di 74 anni dopo una lunga malattia.

 

La sua penna si era arresa, ma la mente vulcanica girava, eccome girava. E non mancava mai di esercitare quella che è stata la sua migliore arma. L’ironia. Che non fu mai compiacimento delle miserie umane, ma specchio delle circostanze, la testimonianza dell’istante che sfugge al pavido. Se si deve definirlo con una sola parola, bisogna dire: “Intellettuale”. Se poi si vuole aggiungere un sottotitolo: “Meridionalista”. Certo sconfitto, perché la storia questo ha raccontato. Ma le battaglie le ha affrontate tutte. Soprattutto quelle difficili in cui pareva prenderci gusto, navigando controcorrente col suo background culturale e astuto. La sua specialità era quella di mettere alla berlina la burocrazia che faceva la faccia feroce per rimediare ai propri ridicoli errori. 

 

Antonio Delfino ha avuto una vita intensa. Intanto, era figlio di “Massaru Peppe”, l’epico maresciallo dei Carabinieri di Platì che tracciò un suo personale percorso in cui persino la malandrineria lo rispettava. Era fratello del generale dei Carabinieri Francesco Delfino, che ha sempre difeso dopo che l’alto ufficiale incappò in un’intricata vicenda giudiziaria che lo vide soccombere. È stato un educatore, svolgendo per lunghi anni il ruolo di preside in una scuola di Bovalino. Fece politica con Riccardo Misasi nella corrente di Base della Democrazia Cristiana, ricoprendo la carica di assessore provinciale a Reggio Calabria. Ma il pubblico lo conobbe soprattutto come giornalista e scrittore. Collaborò con un’infinità di testate nazionali e regionali.

 

Fu amico personale di Vittorio Feltri che, nella prefazione che gli fece al libro “Amo l’Aspromonte”, scrisse: «In Calabria, da quando scrive Delfino, “Il Giornale” vende il 40 per cento in più. Un record. E questo non è certo un caso. Vuole dire che Delfino in Calabria ha peso e bisogna leggerlo, perché conta. Ma significa soprattutto che a Delfino i suoi corregionali credono.  E in questo dimostrano di essere uguali a me, che sono del Nord, avendo il vantaggio di averlo per vicino di casa, uno capace di raccontare le loro memorie che noi su al Nord non abbiamo avuto la fortuna di avere». E poi lo scrittore che indugiava nei racconti in cui le storie e i personaggi erano raccolti da un’osservazione minuziosa della vita quotidiana.

 

Forse il libro di maggior spessore è stato “Gente di Calabria”, edito da Guzzardi di Cosenza, in cui sperimentò un viaggio nelle viscere della Locride. Rideva per non piangere di fronte al saccheggio sistematico dei beni archeologici, annotando: «…per oltre mezzo secolo i resti dell’antica Locri rimasero nel museo di piazza stazione, ornato dalla fontana-insalatiera, dove i cocchieri, nell’infuocata controra, rinfrescavano i cavalli in attesa dei padroni». E ancora: «al funerale di don Pietro Seraca, presidente della nobile Arciconfraternita… il fattore, dignità suprema nella gerarchia contadina di una casa patrizia, vestito a lutto, organizza in tutti i particolari il funerale del padrone. Viene avvisata la banda musicale di Cinquefrondi con il suo capo Rafa di Lana. Niente marce funebri strappalacrime. Lo stesso repertorio usato per il maestro Saripozza portato al cimitero al suono di “Funiculì Funiculà”. Poi tre coppie di cavalli per trainare il carro funebre. Sui nomi da reggere i cordoni della bara scoppiano controversie e interminabili diatribe».

 

Totò Delfino non sopportava i turisti della domenica in visita ai paesi “disgraziati”. Pianse per le tragedie, rise dei tragediatori».

 

*di Bruno Gemelli