Il 15 marzo scorso, a Roma, si è svolta la manifestazione “Una piazza per
l’Europa”
. L’evento ha preso corpo dalle osservazioni che il giornalista Michele Serra ha espresso sulle pagine de “la Repubblica”. «Quanti sarebbero disposti a scendere in piazza per l’Europa unita» si chiedeva, denunciando, per l’appunto, il fatto che a nessuno, in un momento tanto delicato come quello attuale, fosse venuto in mente di riempire un luogo di sole bandiere europee, cioè quelle aventi sfondo blu con, al centro, un cerchio formato da 12 stelle dorate che rimandano agli ideali cardini dei paesi membri dell’unione.

Detto, fatto: 50.000 persone si sono ritrovate in piazza del Popolo e hanno ascoltato un numero corposo di ospiti (attori, giornalisti, registi, scrittori, senatori, sindaci, ecc.) soffermarsi, in vari modi, sulla necessità di vedere sempre più il continente europeo unito sotto lo sventolio di quel colore blu-stellato. A prendere la parola è stato anche il cantautore Roberto Vecchioni. Il suo intervento ha fatto leva su una richiesta: «Chiudete gli occhi un momento e pensate ai nomi che vi dico». Dopodiché, ha continuato affermando: «Io vi dico: Socrate, Spinoza, Cartesio, Hegel, Marx, Shakespeare, Cervantes, Pirandello, Manzoni, Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose?».

Volendo porre l’accento sull’interrogativo finale appare inevitabile riferire
come possa risultare sconveniente valutare gli “altri” a partire da specifici parametri dati dal proprio sguardo sul mondo, da quello che appare consueto nell’orizzonte che si abita.

Per capire meglio cosa si intende con quanto appena espresso si può prendere come esempio un altro scrittore: Jonathan Swift. Non rientra nei nomi proferiti da Vecchioni, ma, senza alcun dubbio, anche l’autore irlandese potrebbe essere utilizzato facilmente per sfoggiare l’acume culturale europeo al mondo intero. Swift, com’è noto, ha scritto pure il rinomato romanzo satirico e allegorico “I viaggi di Gulliver”. Nei contenuti, ha mostrato, fra le altre cose, quanto sia complessa la mente umana e come sia difficile rimuovere dalle singole vedute quelle ombre che innervano il quotidiano. In altri termini, Swift insegna a fare i conti con l’etnocentrismo. 

Quest’ultimo è un vocabolo coniato dal sociologo statunitense William Graham Sumner. Per dare qualche riferimento in più, si può far leva sull’etimologia della parola: etnocentrismo è la contrazione di “etno” traducibile con “razza”, “popolo” e di “centro” a cui fa seguito il suffisso “ -ismo”.

Dunque, l’etnocentrismo è un pregiudizio che porta a considerare i propri criteri valutativi come veritieri o, quantomeno, migliori degli altri. Tenendo in forte considerazione questi aspetti e tornando a Swift, occorre riferire che l’etnocentrismo si applica e, allo stesso tempo, si subisce. Il tutto proprio al pari di Gulliver che, mentre scruta con fare “civilizzato” gli “altri”, d’un colpo, finisce per essere disumanizzato, per essere considerato “anormale” prima dai lillipuziani e poi, nel secondo libro, dai giganti di Brobdingnag.

Certo, le affermazioni di Vecchioni saranno sicuramente nulla più di un’uscita infelice. Se si preferisce, sono parole dall’esito zoppicante dato le conseguenti critiche che ha sollevato quell’interrogativo incipitario riportato poc’anzi. Di sicuro, spaziando sulla tematica, è facile notare come ostentare la propria superiorità scientifica, politica o culturale appaia un vezzo preminentemente occidentale, sebbene, come affermato in precedenza, chiunque (con magari gradazioni differenti) ne sia intinto.

Giunti a questo punto, è altrettanto semplice constatare che si tratta di una
modalità d’azione capace di rilevarsi pericolosa. Del resto, parlare di un “noi” e, di rimando, necessariamente, di “altri” è proprio il comportamento contrario alla natura stessa della cultura e della scienza.

In tal senso, è davvero problematico intendere un determinato fenomeno
culturale come un qualcosa di europeo (o, al più, occidentale). Difatti, le vedute manifestate da pensatori imponenti – come quelli elencati da Vecchioni – sono sempre segnate dalla volontà di affidarsi anche a qualcosa di “non-europeo”. Di più: questa volontà, non di rado, è risultata essere una vera e propria necessità.

Per esempio, il primo nome nell’elenco di Vecchioni è Socrate ed è perfino superfluo riferire quanto nel pensiero greco dell’epoca vi siano aspetti “orientaleggianti” che siano poi irrimediabilmente confluiti anche nell’agire maieutico socratico. 

Ancora, volendo prendere in esame il secondo autore citato – ma, con le dovute differenze, vale pure per tutti gli altri – le convergenze di Spinoza, col pensiero “orientale” sono anch’esse evidenti. Non deve affatto sorprendere: si tratta di dialoghi inevitabili e proficui per il pensiero. 

Le società umane sono sempre risultati che presentano un equilibrio precario. Si tratta di conclusioni attorno alle quali si costruiscono le quotidianità e che vengono comunque disfatte e riformate di continuo tramite proprio una serie di relazioni spazio-temporali che, non di rado, appaiono articolate e complesse e che possono presentarsi nei modi più disparati.

Così, viene davvero difficile affermare che un esito avente siffatta natura possa essere davvero “mio” e, pertanto, risulta quantomeno complicato rivendicare un possesso “culturale” in tutto e per tutto. Dire “occidentale”, “orientale” o, ancora “europeo” significa cedere a etichette che, in quanto tali, possono essere utili per non impantanarsi nelle sfumature secondarie di un discorso, ma che, analizzate con criterio, mostrano come siano semplicemente gusci fragili che aprono soltanto a pregiudizi.