VIDEO | La scrittrice candidata al premio Strega: «La guerra è la più radicale delle ingiustizie. La parola è la forma di sopravvivenza assoluta»
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È tornata nella sua città di origine, Reggio Calabria, la scrittrice Rosella Postorino, per presentare, nella sala Francesco Perri di palazzo Corrado Alvaro, sede della Città Metropolitana il suo nuovo romanzo “Mi limitavo ad amare te”, edito da Feltrinelli e candidato al premio Strega.
La giornalista Anna Mallamo ha conversato con la scrittrice nell’ambito della sezione Libri del Festival del Mediterraneo, Mostre, arte e musica, promosso dal parco Ecolandia.
Rosella Postorino, nata a Reggio Calabria, cresciuta a San Lorenzo al mare, in provincia di Imperia, e adesso residente a Roma, torna a ispirarsi alla storia. Questa volta i personaggi sono inventati. Sono Omar, Nada, Danilo e Ivo, abbastanza grande per essere arruolato. Omar e Nada sono bambini nella primavera del 1992, a Sarajevo, in Bosnia, durante la sanguinosa guerra nei Balcani. Un giorno inizia per loro il viaggio verso l’Italia. Un viaggio verso la salvezza che però è l’inizio di uno strappo doloroso.
Le guerre sono sempre distruttive. Generano lacerazioni e ferite profonde. Nel romanzo “Mi limitavo ad amare te”, Rosella Postorino tratta di un conflitto particolarmente violento, segnato da eccidi, pulizie e stupri etnici, che ha preceduto la dissoluzione della Jugoslavia. Avveniva soltanto trent’anni fa, nel Novecento in Europa ma è una guerra che poco si ricorda. Il romanzo di Rosella Postorino, che abbiamo intervistato, contribuisce a raccontarla, per non tralasciare e non dimenticare.
Esiste un’ulteriore forma di violenza che colpisce le inevitabili vittime innocenti di una guerra, quella dell’oblio e della rimozione?
«Sì, esiste. Spesso mi sono trovata a parlare con i ragazzi che credono che quanto stia accaduto adesso in Ucraina riporti il dramma della guerra in Europa per la prima volta dai tempi della Seconda guerra mondiale. C’è una lacuna con la quale è necessario fare i conti. Il romanzo parla di tre bambini profughi provenienti dalla Bosnia. Tre bambini di Sarajevo che sono partiti per salvarsi dalle bombe e che arrivano in Italia. È un romanzo che parla di orfani, di figli e di genitori, strappi e separazioni. Racconta la guerra come la più radicale delle ingiustizie. Ogni guerra attesta esattamente come il nostro bisogno di sopravvivenza venga ogni giorno umiliato dalla possibilità della morte di compiere il male e dalla possibilità di subirlo».
La presentazione del suo romanzo ricade nei giorni del triste anniversario di un’altra guerra, questa in corso. Quali riflessioni suscita in lei questa coincidenza?
«Ricordiamo il tragico anniversario dell’aggressione di Putin all’Ucraina. Io stavo finendo il romanzo quando questo avveniva. Mi ha fatto moltissima impressione perché guerra significa profughi, come i piccoli protagonisti del mio romanzo. Molti sono infatti i profughi ucraini che si sono rifugiati qui in Italia. Guerra significa ancora separazioni e violenza. Il fatto che di nuovo, nel cuore dell’Europa, esista questa guerra ci fa interrogare moltissimo su qual sia il significato della memoria, dell’oblio e della rimozione. Mi chiedo sempre che cosa impariamo della storia, se le guerre continuano a esistere, se ancora questa violenza fortissima persiste e aggredisce civili, cioè le persone disarmate e indifese».
Perché affida ai bambini il racconto di questa guerra nel suo romanzo?
«È capitato, in realtà, per caso perché mi sono imbattuta in questa vicenda dei bambini di Sarajevo realmente arrivati in Italia. Mi aveva colpito il fatto che per salvarsi avessero perso tutto, addirittura anche i genitori e pure l’amore delle madri. I bambini sono sicuramente quelli che nella guerra perdono di più. Oltre a essere più colpiti come tutti gli altri, loro sono anche le persone alle quali è difficile spiegare cosa accade; persone che a causa della guerra perdono il diritto ad avere protezione, all’istruzione, alla salute. L’infanzia sicuramente è più violata dalla guerra».
Anche il suo precedente romanzo Le assaggiatrici ha come sfondo la storia. Che rapporto c’è tra letteratura e storia?
«Per due volte consecutive ho scritto un romanzo storico ma quasi senza sceglierlo. Era la condizione umana ad interessarmi. E quella vicenda era collocata nella storia. Quello che mi interessa di più è raccontare i fenomeni collettivi, che di solito vengono riportati dai giornali e che poi diventano pagine dei libri di storia, soffermandomi però sulle storie individuali. A me interessa cercare dei personaggi, inventare dei personaggi che, come dice il premio Nobel per la Letteratura Svetlana Aleksievic parlando dei suoi personaggi, si sono imbattuti nel mistero della vita e in un’altra persona».
Come si è documentata per scrivere questo romanzo?
«C’è stato un lavoro di ricerca e di ascolto delle persone che sono state protagoniste di questa vicenda storica, quindi dei bambini di Sarajevo che oggi ovviamente non sono più bambini ma sono adulti, più o meno miei coetanei. C’è stato quindi un dialogo con loro, durato quattro anni e che dura tuttora. Siamo diventati fondamentalmente amici. La loro testimonianza mi è servita per capire l’esperienza sentimentale di questo viaggio: uno spartiacque nelle loro vite, letteralmente un viaggio tra la vita e la morte. Poi ho incontrato la direttrice dell’orfanotrofio di allora ma ho incontrato anche le persone che vi risiedono adesso. Sono entrata nell’orfanotrofio di Sarajevo, esperienza molto molto forte per me. Ho incontrato genitori che non hanno più visto i loro figli, altri che non hanno più saputo nulla di loro figli per moltissimi anni. Ho condotto una ricerca delle persone vere che avessero vissuto l’esperienza e la guerra che volevo raccontare. Questo dialogo e l’immersione nella cultura bosniaca, attraverso letteratura, poesie, film, hanno lavorato dentro di me, hanno sedimentato facendo in modo che si producessero delle storie di invenzione. Io racconto dei personaggi d’invenzione. Ma in qualche modo loro diventano emblematici di chi quella guerra l’ha davvero vissuta, e in fondo della condizione umana universale».
Dopo il successo de Le assaggiatrici, pubblicato nel 2018, pluripremiato anche con il Campiello, adesso per questo nuovo romanzo arriva la candidatura al premio Strega. Come vive questo momento?
«Sono molto contenta perché è sempre bello essere candidati a uno dei primi più importanti d’Italia. Vediamo come andrà».
Cosa è la parola per Rosella Postorino?
«La parola è una forma di sopravvivenza assoluta. È la possibilità di rivendicare la propria esistenza. “Dico e quindi sono”. Attraverso la parola posso parlare e posso levare la mia voce e quindi esisto. È la possibilità di entrare in comunicazione con l’altro e quindi di difendere sé stessi ma anche di difendere gli altri; è possibilità di portare avanti una memoria ma soprattutto è possibilità di indagine e di esplorazione. Le parole servono ad arrivare là dove non sappiamo neanche di voler arrivare. Quindi la parola come possibilità di scrittura, che è la mia forma di sopravvivenza».
Che rapporto ha la Calabria?
«È la mia terra, il mio nido. È il luogo che mi ha dato alla luce, che mi ha allevato. È lo stesso rapporto conflittuale che c’è con le madri. Dalle madri chi ci salva. Anche dalla nostra terra in fondo chi ci salva»