La donna della quale voglio raccontarvi - prima di una serie dedicata alle autrici calabresi – è una scrittrice sui generis, fuori dai canoni tradizionali, dai percorsi ufficiali di formazione, che non ha alle spalle letture, ricerche, studi, specializzazioni. Semplicemente, la terza elementare e una vita dedicata alla famiglia e alla casa. Una casalinga, insomma!

Una donna capace di alimentare, nel proprio grembo un altro figlio. Lei è mamma di un giovane che, guarda caso, nonostante i suggerimenti genitoriali (l’arte difficilmente ti dà da mangiare) per una carriera da avvocato o da medico, sta muovendo i primi passi come scrittore. La creatura che scalcia nella sua pancia, che scalpita per venire alla luce, ma che lei rimanda indietro, nasce nel 1936. Lo stesso anno, di lei, muore la madre.

Eppure, non ha più toccato un libro in vita sua, benché la biblioteca del marito, maestro elementare, ne fosse ricca. E allora, che succede? Succede un fatto curioso a colei che, l’anno successivo, il 1937, sulle pagine di Letteratura, la prestigiosa rivista letteraria fiorentina, sarà definita un’anziana signora sconosciuta e illetterata di cui si pubblicano stralci di un originale diario.

Al di là della causa occasionale - la morte della mamma - la motivazione autentica è il dono naturale e spontaneo della scrittura che sgorga, priva di regole e orpelli, in una catartica associazione di idee, sentimenti, ritratti, memoria. Eccola, donna Mariannina, inseguire i suoi ricordi e fissarli, consapevolmente, nell’amore. Su supporti di fortuna, fogli occasionali, per lo più, per alimenti, fluisce, vergato a matita con lettere sghembe, l’universo interiore di una donna.

Un raptus lirico, una vibrante ispirazione, una trance terapeutica? Forse tutte queste cose insieme, sostenute da un’intelligenza scoppiettante, che vanno a ricostituire l’essenza di figlia, moglie, madre, donna, su quei fogli volanti che avevano conservato pane, carne e che ora custodiscono qualcosa di molto prezioso, sconosciuto fino ad allora. Una narrazione non classificabile, un bisogno viscerale urgente, un’esigenza dell’anima che si riappropria di sé, una saggezza innata, non accademica e scolastica, un’irrequietezza interiore che, placata fino a un certo punto dalla routine domestica, scaturisce come lava incandescente dall’intima eruzione.

Queste, sì, che sono rivoluzioni! Il figlio, affascinato, raccoglie (i fogli sono sparsi per casa) e copia; avverte l’esigenza di condividere la realtà fotografata dalla madre, che ha incamerato, incubato e partorito. Inaspettatamente. Ma si chiede - e noi con lui - se quella della madre, priva di basi culturali, sia solo arte popolare. Il figlio si risponde che c’è dell’altro. Forse di più. Perché gli scritti di donna Mariannina (che riescono a tracciare, oltre al ricordo della mamma defunta, i contorni precisi di figure come la guardia vestita da parata, il carabiniere di carriera, il caro parente usuraio, le eterne zitelle, il signor Domenico truffatore, il professionista donnaiolo, il povero ricco, il nobile decaduto, il sacerdote corrotto, la contadina illusa) possiedono un valore che oltrepassa la rappresentazione generica, la documentazione di un personale mondo poetico.

Sì. Perché questo mondo viene mosso da sentimenti universali - amore, dolore, rimorso - su cui aleggia il senso della morte, che lei contrasta con la forza creatrice della fantasia, con l’incisività della lingua parlata, di un dialetto, quello di Bovalino, che tutti capiscono. Un linguaggio che trova le sue radici in un passato classicheggiante, dal sapore primitivo che fa da collante e che sa colmare i vuoti della debole sintassi.

La rivista propone i suoi scritti non come un documento d’arte popolare d’interesse sociologico, bensì come testo con qualità letterarie, esempio di una impregiudicata espressione letteraria che pone al lettore interrogativi sugli stati profondi della cultura italiana, sulla sua arcaicità e sulle sue diverse possibilità di sviluppo.

Diventeranno un volume, “Diario e altri scritti”, 1962, Rebellato, purtroppo, oggi, introvabile. Una scrittura ispirata, intensa, delicata, ironica, fresca, acuta, quella di Marianna Procopio (1885-1970), madre di Mario La Cava, che difetta solo nella quantità.