“Un paese felice” di Carmine Abate (Mondadori) vince la 68esima edizione del Premio nazionale letterario Pisa per la narrativa, uno dei più prestigiosi e longevi riconoscimenti nel panorama culturale italiano. Tra i premiati del passato si annoverano scrittori del calibro di Moravia, Vassalli, Ortese, Sciascia, Tabucchi. Il romanzo, ambientato in Calabria, uscito un anno fa per Mondadori, narra la storia di Eranova, un paese distrutto assieme a 700mila alberi per far posto al quinto centro siderurgico che poi non è mai stato realizzato. Una storia d’amore e di rabbia e, nonostante tutto, di speranza.

La cerimonia di premiazione si è tenuta ieri a Pisa, Palazzo Gambacorti. «Con la consueta sapiente scrittura – si legge nella motivazione -. Carmine Abate ricostruisce un altro tassello della sua Calabria, questa volta rievocando la storia di Eranova, sorta nel 1896 e annientata negli anni Settanta del XX secolo per far posto al grande polo siderurgico di Gioia Tauro. Il paese era sorto sulla scorta degli ideali libertari e, a loro modo, politicamente incisivi delle grandi utopie tardo-ottocentesche, e si era mantenuto indipendente e coeso nel corso del Novecento. Ma queste utopie nate dal popolo nulla potevano contro la grande speculazione perpetrata nei confronti di tutto il Sud. Abate rievoca la storia di Eranova, dal nome così gioioso (e poi, purtroppo, antifrastico), cominciando dalle vicende del protagonista Lorenzo, studente universitario innamorato della bella Lina, eranoviana decisa a non lasciar smantellare il suo paese e l’habitat che vi si era creato. Imprese della giovinezza si mescolano, con simpatica complicità, a quelle propriamente politiche: si ottiene così una visione non banale dei plumbei anni Settanta, nei quali il pacchetto di Emilio Colombo, che decretò lo sconvolgimento ambientale della Calabria intorno a Gioia Tauro, non è certo da considerare un evento minore.

Attorno a Lorenzo, che cerca anche a Eranova un suo radicamento, e Lina, che vorrebbe staccarsi ma invece si lega sempre più alla sua Heimat minacciata, ruotano figure molto vivaci, caratterizzate con tratti linguistici di intensa connotazione regionale e locale: fra tutti, emerge l’attivissimo nonno Cenzo, testimone sino all’ultimo del destino del luogo che lo aveva accolto per tutta la vita. Ma è soprattutto la filigrana letteraria a consentire un’ulteriore chiave interpretativa. Eranova è, per Lorenzo (e anche per l’autore), l’equivalente della Macondo di Cent’anni di solitudine, anch’essa un “paese felice”, come recita una citazione in esergo. Tuttavia, mentre la real-fantastica città di García Márquez deve mantenere la sua essenza sfuggente se non intangibile (pur diventando alla fine un “pauroso vortice di polvere e macerie”), Eranova si presentava come un piccolo Eden concreto e abitato, venuto su per volontà di esseri umani poveri ma liberi, e non di schiavi o di scampati alle guerre. La storia di questo paese, in apparenza circoscritta e secondaria, interseca in effetti quella di tutta Italia, cosicché compaiono, almeno evocati, uomini politici di primo piano e anche intellettuali come Pasolini, che si interessa sinceramente al destino di Eranova ma muore prima di poter fare qualcosa. Da un suo verso deriva un sintagma, “La violenza delle memorie”, che costituisce l’essenza del racconto che Abate, dopo anni di ricerche e di meditazione, doveva e voleva presentarci.