Alla fine resta l’invidia. Invidia per la serenità di questa donna che ha rinunciato a tutto per avere tutto, che ha trovato il coraggio di abbandonare l’opprimente quotidianità di un cartellino da timbrare alle Poste, dove lavorava, e da 40 anni ormai vive immersa nella bellezza della Calabria più autentica e struggente che tutti gli altri hanno deciso di rinnegare. Alla fine della visione de “La donna che sussurra alle capre”, documentario di Saverio Caracciolo, pluripremiato fotoreporter di LaC, resta la consapevolezza che la felicità può essere cercata e trovata se si ha la temerarietà di scegliere la propria strada. E quella di Rossella Aquilanti, 62 anni, si inerpica lungo i sentieri e le vie di pietra di Pentedattilo, un piccolissimo borgo nel territorio di Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, sovrastato dalla rupe che ricorda una ciclopica mano con cinque dita, Pentedattilo appunto, famoso anche per essere stato, alla fine del ‘600, teatro della strage degli Alberti.

 

Rossella non è nata in Calabria come rivelano le tracce del suo accento viterbese. Ma in Calabria ha deciso di vivere, e non in un posto qualsiasi. Nell’83 visitò questo borgo misterioso, già allora abbandonato da chi non era più disposto a rinunciare alla modernità e aveva preferito trasferirsi nel paese nuovo sorto poco distante.
«Chiamai mio padre e gli dissi che era un posto bellissimo, dove avrei voluto vivere – racconta -. Il borgo era ancora integro, non distrutto dagli incendi e dai crolli, ma le case erano tutte vuote perché la gente era già andata via». Ne comprò una per appena 8 milioni e mezzo di lire, che al cambio attuale sarebbero poco più di 4mila euro, e cominciò a costruire la sua nuova vita all’ombra di queste cinque dita di roccia che spuntano dalla terra come quelle di un gigante sepolto sotto la montagna.

 

I primi tempi non furono facili. «A Pentedattilo vivevamo solo in tre persone – ricorda –. Mancava anche l’acqua corrente e per anni abbiamo risparmiato e riciclato ogni goccia disponibile. Ma io sono una contadina, più le cose sono scomode più mi affascinano. Qui ho tutto quello che mi serve. La natura ci dà più di quanto meritiamo».
Oggi Rossella è l’ultima abitante del borgo antico, coltiva il suo orto e alleva una ventina di capre per produrre formaggio e ricotta. Capre fortunate, che hanno il privilegio di stare con i propri piccoli, lontane anni luce dalla logica degli allevamenti intensivi dove i capretti vengono tolti alle madri due giorni dopo la nascita.

 

Ad aiutarla c’è Maka, un ragazzo maliano di 19 anni arrivato in Calabria con i barconi, che le dà una mano a mandare avanti la piccolissima fattoria, occupandosi insieme al lei della mungitura e del trasporto del latte lungo gli assolati sentieri. Una dimensione rurale altrove persa per sempre e qui ritrovata tra i ruderi di un luogo che è ancora meta dei turisti più attenti e curiosi, che d’estate si arrampicano fino al borgo antico, per poi restare increduli dinnanzi a quello che trovano.


«Quando arrivano sono estasiati dalla bellezza di questo posto - continua Rossella nel documentario di Caracciolo -, incapaci di credere che sia così semisconosciuto. Ecco perché dico ai giovani calabresi di riscoprire la loro terra. In Calabria ci sono cose bellissime. Recuperate le vostre radici, fate rivivere i borghi abbandonati. Piscine e resort sono ovunque, questa invece è una ricchezza rara che non va sprecata».

Il documentario di LaC Storie