Un libro su uno dei periodi più controversi della nostra storia in cui quasi niente è inventato. Tutto si rifà a vicende reali e i fatti dominanti sono veri. Fatti che condizionano ancor oggi, in modo quasi sempre inconsapevole, la vita degli italiani
Tutti gli articoli di Cultura
PHOTO
*di Pino Aprile
Perché, non essendo “novellista” ma giornalista e scrittore di saggi, cimentarsi con un romanzo storico su di una ragazzina che diviene capo-brigante? L'idea è che sia così più comprensibile la tragedia che devastò il Sud d'Italia e, per le pessime politiche impostate allora e attive ancora oggi contro l'ambizione di un Paese unito, condannò il Mezzogiorno alla subalternità e alla minorità. “La brigante bambina”, infatti, tratta in forma di romanzo del più controverso e mal raccontato periodo della nostra storia: il Risorgimento, ovvero l’invasione del Regno delle Due Sicilie per conquistarlo e annetterlo a quello sabaudo e così far nascere, a mano armata, lo Stato italiano. Non che altri stati siano nati meglio. Ma almeno se lo raccontano con più onestà.
Per maggior chiarezza, riprendo parzialmente la nota che riporto a fine del mio libro: i testi di storia raccontano i fatti, ma quali e come, lo decide, al solito, il vincitore, all’interno di un sistema di potere nel quale trova più facilmente spazio e ascolto chi lo asseconda. Riuscite a immaginare uno storico turco che narri il genocidio degli armeni nelle università del suo Paese? Rispettando le proporzioni, non è diverso altrove, né in Italia, su quanto accadde al Sud per unificarla. Il che, di fatto, comporta l'educazione dei vinti all’accettazione della sconfitta, al ruolo gregario, “sancito dalla Storia”.
Nel riferire i fatti, pur se orientati, e nel valutarli, i libri di storia trasmettono anche sentimenti, ma in modo non dichiarato, indiretto, spesso inconsapevole, perché da quei fatti si ostenta una distanza, ex cathedra, che dovrebbe garantire obiettività. Ma è un inganno, non sempre voluto. I romanzi, invece, in modo palese, schierato, confessano sentimenti nel riferire vicende storiche reali o che di quelle vicende e quei tempi hanno i colori, i suoni, persino i protagonisti, in alcuni casi, ma non necessariamente molto più di questo. Eppure, spesso nel lettore si radica come più vera “la storia appresa dal romanzo”, proprio perché veicolata da un sentimento (la memoria getta radici più profonde e stabili, se non è “fredda”), rispetto a quella ufficiale, peraltro non di rado altrettanto artefatta, ma meno sincera.
Avendo il vincitore il dominio della comunicazione, la versione dei vinti, ove non ugualmente soffocata da un potere oppressivo, affiora attraverso l’arte (vedi Guernica, di Picasso), dalla musica (vedi “Brigante se more”, di Eugenio Bennato), dalla letteratura (vedi “La masseria delle allodole”, di Antonia Arslan, sul genocidio degli armeni, o “L’eredità della priora,” di Carlo Alianello) e, soprattutto, da quelle forme di racconto popolare in cui si cristallizzano brandelli di storia, a volte deformati, sentimenti e risentimenti (nenie, filastrocche, teatro, memorie familiari, magari a lungo celate, per timore o vergogna, come accadeva al Sud per chi aveva avuto un brigante fra i parenti; cosa che ora, per inversione di giudizio e per maggior consapevolezza, è divenuta motivo d'onore).
Quasi niente di questo romanzo è inventato: la coppia di protagonisti, qualche altro personaggio, e i dettagli, i colloqui, ma tutto il resto si rifà a vicende reali, pur se adattate alle esigenze del racconto. Persino quella che parrebbe più fantasiosa, romanzesca, la strepitosa “beffa di Rossano”, è assolutamente vera, come documenta Eugenio De Simone (autore di “Atterrite queste popolazioni”, sulla ferocia della repressione sabauda in Calabria): il brigante più ricercato del tempo, Domenico Straface, di Longobucco, detto Brigante Palma, il Re della Montagna, andò a sedersi in teatro, a Rossano, fra i capi dell'esercito sabaudo incaricati di catturarlo, e si godette lo spettacolo con loro, ignari. E si prese pure il gusto di farlo sapere subito, con un colossale, incruento sberleffo di rara eleganza. Per capire di cosa parliamo: John Turturro, in “Bastardi senza gloria”, una scena così (è quella madre del film), ha dovuto inventarla; noi, ce l'abbiamo, vera e molto meno rozza, nella nostra storia!
In “La brigante bambina”, la deformazione più evidente è quella dei tempi: fatti accaduti in anni sono concentrati in pochi mesi, quindi non necessariamente li troverete nella sequenza temporale in cui avvennero; la campagna di conquista dei paesi lucani, per dire, già condotta dal generalissimo dei briganti, Carmine Crocco Donatelli, e ripetuta con José Borjes, compare, in sintesi, una volta sola; ribelli che operarono in aree e tempi diversi si trovano insieme negli stessi luoghi. I fatti, però, sono quelli: dall’infelice spedizione del generale catalano, alla Pignatara (l'amante di tutti i briganti) che ebbe quel soprannome, per quelle ragioni (“In una pignatta, ognuno ci mette quello che vuole”): si chiamava Elisabetta Blasucci, e alle altre brigantesse citate, via via passando per le vittorie dei ribelli, l’inspiegata rinuncia alla conquista di Potenza, le battaglie perse, i tradimenti, le storie d’amore fra briganti e brigantesse, l'epopea del Sergente Romano, la mancata volontà di Crocco di trasformare le loro formazioni in un esercito, la diabolica opera del più micidiale cacciatore di briganti, Tommaso La Cecilia, la deportazione della popolazione del Sud, le torture, i massacri del colonnello Milon e del macellaio di terroni Pietro Fumel, in Calabria.
Un genocidio negato nei numeri e nelle intenzioni, che riemerge a distanza di un secolo e mezzo, nonostante le pur altissime denunce di tanti intellettuali e politici, sin dai primi momenti, inclusi, in Parlamento, Garibaldi, Nino Bixio o il duca Proto di Maddaloni, il filosofo milanese Giuseppe Ferrari, e tanti altri, sino ad Antonio Gramsci, comunista, Angelo Manna, del Movimento sociale, Carlo Alianello, Giordano Bruno Guerri e il professor Giuseppe Gangemi aspromontano docente di metodologia della ricerca scientifica all'università di Padova (imperdibile il suo recentissimo “In punta di baionetta”, in cui, tra le tante cose, analizza come Alessandro Barbero, per dirne uno, non rispettando le regole della ricerca storica, nega la strage dei prigionieri meridionali poi arruolati a forza; mentre dagli stessi documenti da lui consultati, mostra Gangemi, si evince il contrario).
E questo, per citare solo alcuni italiani, perché molto più facile è sapere della nostra vera storia leggendo autori e storici stranieri, da quelli contemporanei degli eventi, a quelli di oggi, fra cui Denis Mack Smith e John Anthony Davis. E, in forma romanzata, ne “La brigante bambina” si narra anche come il Sud fu condannato alla sconfitta e poi all'emigrazione, mai esistita prima nella nostra storia, da una unità male costruita e peggio amministrata: ancora oggi si progetta di dotare città del Nord di treni monorotaia da 1.200 km all'ora, mentre gran parte del Mezzogiorno, come Matera, è privo “del conforto della vaporiera” (dalla lettera del sindaco della città al capo del governo, nel 1901), che il nostro Paese concesse prima alle sue colonie africane e poi ai terroni, ma non a tutti.
Riassumo: in questo libro, i fatti dominanti sono veri, alcuni personaggi inventati, i tempi moltissimo contratti. Dolore e danni di quelle vicende condizionano ancor oggi, in modo quasi sempre inconsapevole, la vita degli italiani, non solo del Sud, e il destino del Paese, che da quella guerra non fu unito, ma diviso.
*giornalista e scrittore