Il ricorso alla finzione per raccontare la verità: la storia del nuovo Capo dei capi così come non è stata mai scritta. Le indagini degli eroi dimenticati osteggiate dai doppiogiochisti di Stato che ne hanno impedito la cattura
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Più che una chiave, un codice narrativo: raccontare “una storia” per narrare “la Storia”. La Storia che, così, mai finora è stata raccontata. “Il male non è qui”, il romanzo scritto da Gaetano Pecoraro, edito da Sperling&Kupfer, è un’opera che è riduttivo sostenere si ispiri semplicemente a fatti accaduti. E se i nomi attribuiti ai buoni, di “una storia” (di nuovo) raccontata bene, sono solo fortemente evocativi - Mimmo Bosso, il pm allievo del «Giudice», poi Pino Germi, il poliziotto impavido e pronto a tutto pur di arrivare a colpire il cuore «dell’Organizzazione» (ovvero Cosa nostra), Carmelo Giusti, l’ex infiltrato che prese il posto di Germi, – i cattivi mantengono anche nella rappresentazione romanzesca la loro identità, dal principale attore, «MMD» ovvero Matteo Messina Denaro, il latitante italiano più ricercato del mondo, a Francesco Geraci, il braccio destro del capomafia di Castelvetrano poi passato tra le fila dei collaboratori di giustizia, fino allo «zio Totò, il Capo dei capi», ovvero Salvatore Riina.
Il magistrato e il poliziotto
Il giornalista siciliano autore dell’opera, noto al grande pubblico italiano per le sue inchieste nel format cult di Mediaset Le Iene, propone un romanzo dalla poderosa efficacia descrittiva, capace di alimentare, senza forzature di sorta, suggestioni ancorate saldamente alla realtà. Chi è Mimmo Bosso? Chi è il magistrato che, tornato in Sicilia dal Nord per lavorare fianco a fianco con «il Giudice» (ovvero Paolo Borsellino), dopo anni spesi a combattere «l’Organizzazione», sfidando lo stesso Matteo Messina Denaro, finirà a fare il sostituto in una procura minorile?
E chi è Pino Germi, lo «sbirro» tutto d’un pezzo che scampò all’attentato ordito dalla Cupola rispondendo ad una pioggia di fuoco con la sua pistola? Probabilmente Massimo Russo, che in veste di sostituto ebbe in Paolo Borsellino (nella foto in basso Russo e Borsellino) il suo procuratore a Marsala, e che poi, da pm antimafia di Palermo, indagò sulla mafia trapanese e su Matteo Messina Denaro.
Probabilmente Rino Germanà, il commissario di Polizia che su mandato di Riina, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro tentarono di assassinare il 14 settembre del 1992 e che rispose alla pioggia di piombo col fuoco della sua pistola d’ordinanza, gettandosi in mare, ferito, sanguinante, ma vivo.
Sfida impavida e senza gloria
La “storia” prende le mosse dal rientro del pm Bosso «sull’Isola», la Sicilia. Il primo caso che gli viene affidato riguarda un influente politico locale sospettato di essere ammanicato alla mafia: Lugi Tittocchia (nel romanzo è forse la proiezione del vero Vincenzo Culicchia, l’ex sindaco di Partanna parlamentare dell’Ars, accusato dai pentiti e poi scagionato da ogni accusa?). Bosso chiede al Giudice un poliziotto di cui potersi fidare. Il Giudice non esita: Germi. Il contesto è complicato: stanze che hanno occhi e orecchie, il rischio di delazioni e depistaggi è sempre dietro l’angolo, anche da parte di insospettabili. La mafia prova ad aggiustare i processi, ma il collante tra uomini d’onore e giustizia non è quel politico locale, ma un notaio massone (nel romanzo Pietro Giambrone, nella realtà forse Pietro Ferraro, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), vicino ad un ministro della Repubblica e longa manus di un parlamentare legato ai fratelli Graviano (Luigi Nicolosi nel romanzo, Vincenzo Inzerillo nella realtà). Il Giudice si fida di lui, di Bosso: gli consegnerà perfino le chiavi del suo ufficio, una sorta di passaggio ideale del testimone, prima di morire nel nuovo tremendo attacco allo Stato ordito dall’Organizzazione. Non è la fine, ma un nuovo inizio. Per la stessa Organizzazione che esporta lo stragismo nel Continente nel tentativo di indurre lo Stato stesso a trattare: gli attentati di Roma, Firenze, Milano. La sigla «Falange Armata» per ammorbare la verità. Per Bosso e Germi un terreno ostile, dove i sospetti si annidano ovunque. Pino Germi diventa il bersaglio di un agguato: la dinamica è sovrapponibile alla vera storia di Rino Germanà. Anziché essere protetto e posto nelle condizioni di realizzare il suo lavoro, viene subito trasferito nel commissariato di una landa desolata, al Nord. Per Bosso è una perdita gravissima, ma presto avrà un altro valoroso poliziotto al suo fianco, Carmelo Giusti (nella realtà è forse il vero commissario Carmelo Marranca?).
Vicende drammaticamente vere
In un contesto di dubbi e timori, si suicida anche un magistrato, Sabatino Di Carlo (la cui vicenda, tranne che per la dinamica suicidiaria, richiama al tragico gesto compiuto dal sostituto procuratore generale di Palermo Domenico Signorino). La caccia a MMD è rompicapo che prova anche psicologicamente Mimmo Bosso, il quale combatte una guerra al servizio dello Stato e vede sgretolarsi il resto della sua vita. Indaga sul Paradise Beach, dove il superlatitante ed i suoi compari mafiosi erano di casa. Grazie all’intuito di Giusti, rispolvera dagli archivi l’omicidio del vicedirettore dell’hotel. Una storia atroce, ma drammaticamente vera, come vero è il nome della vittima, Nicola Consales, che pagò con la vita il suo amore per la donna che si era poi legata al boss: Andrea. Le indagini partono dalla Sicilia ma arrivano fino a Vienna, in Austria, la terra della avvenente fidanzata di MMD (nella realtà Andrea Haslehner, la “Asi” di Matteo Messina Denaro). Sperano di stanare il capomafia di Castelvetrano, ma non ci riescono. È una sfida impavida ma senza gloria.
Il soggetto perfetto
Sospettano in una gola profonda, in un traditore della porta accanto, tra gli apparati dello Stato. È un fantasma il nuovo Capo dei capi, invisibile e inafferrabile. Seguono anche Mary (Maria Mesi tanto nel romanzo quanto nella realtà), provano ad acciuffarlo nei luoghi teatro dei loro incontri segreti, ma sfugge ancora. Il finale è scritto in prima persona dall’autore, che immagina Mimmo Bosso e Matteo Messina Denaro incrociarsi in via Palestro, mentre Milano brucia dopo l’ennesimo attentato stragista. Sono pagine di un impatto narrativo poderoso, di un’intensità superba, proterva, che raccontano la sconfitta di uno Stato che ha impedito ai suoi uomini migliori di vincere. È l’epilogo di “una storia” che diventa il soggetto perfetto per un film di denuncia. Un film che non si conclude con la cattura del fuggiasco, del pericolo pubblico numero uno, del male andato via da qui sempre con un momento d’anticipo su chi gli dà la caccia. E che lascia amarezza, quella nella quale vengono rassegnati i protagonisti, i “buoni”: sconfitti, osteggiati, dimenticati, eroi protagonisti di una storia che, chissà, forse un giorno, diverrà “Storia”.