Probabilmente in pochi sanno che in Calabria un tempo si producevano coltelli. Si realizzavano proprio qui da noi, soprattutto nell’aria presilana del Cosentino. Così a scavare bene viene fuori la storia del coltello calabrese, che era un’opera d’arte, un capolavoro dell’artigianato locale. Si tratta di una storia ormai dimenticata, cancellata, soprattutto per paura. Infatti quelli che possedevano coltelli, se scoperti venivano addirittura fucilati sul posto. Come briganti! Figurarsi quelli che li realizzavano. E così con l’Unità d’Italia venne immediatamente smantellato tutto il diffuso apparato dei laboratori, cancellando così secoli di storia. Diversi coltelli però sono arrivati fino a noi. E sono veramente bellissimi. 

La produzione di coltelli in Calabria

Una storia che da qualche tempo sta tornando a galla grazie all’interesse di alcuni giovani chef, come lo stellato Antonio Biafora, e ad alcuni giovani artigiani come Salvatore Tarantino di Casali del Manco. Andiamo a trovare Salvatore nel suo piccolo e prezioso laboratorio, che lui vive e cura con tanta partecipazione: «Io non ho mai avuto passione per i coltelli. Ho iniziato a produrre attrezzi per bonsai perché avevo perso il lavoro. Dopo un po’ di anni una Tv di Tokyo mi ha invitato in Giappone per una settimana, dove ho visitato in particolare un artigiano che produceva attrezzi e coltelli nella sua fucina che era in piedi da 4 generazioni. Vedendolo forgiare si è acceso dentro di me un fuoco. Così al ritorno dal Giappone ho iniziato a studiare e a produrre coltelli da cucina. E ho scoperto che in Calabria si producevano coltelli con l'acciaio prodotto a Mongiana, nel Vibonese. Da lì ho iniziato una ricerca sulla produzione calabrese di coltelli tra il 1700 e 1861. E grazie all’aiuto dello oplologo (chi studia le armi, ndr) don Francesco de Feo, che porta avanti un importante studio dei coltelli antichi, sto imparando le varie forme e le caratteristiche di questi meravigliosi coltelli».

Con Salvatore tentiamo di capire come mai in Calabria, e nella Presila cosentina soprattutto, c’erano tanti coltelli. E tanti che li realizzavano. 
«Sotto i Borbone tra il 1700 e il 1860, la Calabria con le Reali Ferriere della Mongiana, forniva acciaio e ferro a tutto il Regno delle Due Sicilie. Parte di questo acciaio veniva utilizzato nell’area presilana ed in particolare nel paesino d’origine di mio nonno, Pedace, per la produzione di coltelleria. Come scrisse padre Vincenzo Padula in "La Calabria prima e dopo l'Unità d'Italia" numerosi "forgiari" (fabbri) operavano a Figline, San Fili, Pedace e Lago, dove erano specializzati nelle posate».
 
Cosa raccontava Padula a proposito?
«Le informazioni riportate dallo scrittore Padula sui 40 coltellai nella zona dei Casali sono state recentemente confermate, e ampliate, dall'instancabile e preparato studioso di storia locale, Peppino Curcio, che nei registri del plebiscito del 1860 ha scoperto ben 80 nomi di fabbri e coltellai (alcuni dei quali con la qualifica di artista) attivi nei Casali presilani di Pedace e Serra (Cs). Dunque Pedace, dove fino a pochi anni fa gli ultimi eredi delle antiche tradizioni forgiavano lame per macelleria, fu indubbiamente quel grande centro produttore di "Coltelli Calabresi" che non solo merita le due spade incrociate sullo stemma, ma può vantare a pieno titolo la qualifica di "Toledo di Calabria"».

Salvatore ci fa vedere un bellissimo coltello elegantemente lavorato, che il nonno teneva segretamente in casa. Davvero un’opera d’arte.
«Per molto tempo ho cercato informazioni riguardo ai "curtellari e peraci" chiedendo a mio nonno perché venivano chiamati cosi. Gli feci vedere (molte volte) numerose foto di coltelli antichi chiamati calabresi, trovati su cataloghi militari che indicavano come provenienza il sud Italia e datati 1700-1800».
 
Il nonno ovviamente non poteva e non voleva rispondere. Perché era rimasta in lui tutta la paura di un tempo.
«Mio nonno deviava sempre la conversazione, rispondendomi in maniera scocciata e stizzosa, dicendomi che non li aveva mai visti, di lasciarlo stare perché non capiva nulla di coltelli».
 
Poi un giorno succede che…
«… venne uno studioso del posto, Peppino Curcio, col nonno si conoscevano e si stimavano. Curcio aveva saputo che io realizzavo coltelli.  Portò attaccati su una tavola dei coltelli forgiareschi, prodotti a Pedace, dicendo che erano antichi.  Mio nonno era presente alla conversazione e vedendo i coltelli mi fece cenno che non erano quelli,  e chiese di far andare via Curcio. Quando questi andò via, scese in laboratorio e con voce piena di orgoglio mi disse, tenendo in mano qualcosa arrotolato in una vecchia maglia: "Nepù , chissa é a curtella ca se facia a Peraci"! Io non capivo cosa volesse dire, ma quando srotolai la maglia vidi un fodero in cuoio e finalmente ho potuto ammirare "la coltella Calabrese" tanto cercata! Era nascosta chissà dove, mio nonno non ne aveva mai parlato con nessuno, e nessuno doveva sapere! Aveva sempre tenuto tutto nascosto. “La coltella” l’aveva ereditata dal nonno paterno attraverso la madre. E anche a lui era stato imposto di non parlarne mai con nessuno. E così fu».

Ora collezioni antichi coltelli e hai messo in piedi un laboratorio. Che è un angolo di studio e ricerca storica.
«Più che collezionare, io sono alla ricerca di quei coltelli che furono realizzati nella nostra Presila, al fine di ricostruire un’importante pagina di storia. Poi desidero far conoscere una delle più interessanti produzioni di coltelli del Regno delle due Sicilie, con coltelli particolarmente belli e finemente lavorati. Questo anche attraverso la mia esposizione di pezzi in bottega e in futuro attraverso il Museo delle arti e mestieri che grazie al sindaco Francesca Pisani e all’amministrazione comunale di Casali del Manco, sarà messo a disposizione dei cittadini e dei turisti».
 
Per te il laboratorio è diventato anche un’occasione e una opportunità.
«Ho messo in piedi il laboratorio per creare per me un lavoro dignitoso nella mia terra. Il laboratorio è diventato un punto di riferimento per chef e appassionati della coltelleria e di utensili per la lavorazione dei bonsai».
 
È stata una rivincita. E non solo.
«Sì, è un modo per valorizzare la nostra storia e le nostre tradizioni, perché attraverso la mia piccola bottega posso diventare l'anello di congiunzione tra il nostro passato e il futuro , nella speranza che le nuove generazioni abbiano voglia e interesse di continuare e di mantenere vivo il mestiere di "curtellaru" in una terra che é piena di opportunità lavorative da reinventare».
 
Ma emerge anche un po’ di amarezza. 
«Purtroppo noi non abbiamo avuto la fortuna, come in altri centri importanti di produzione di coltelli, di continuare a produrre coltelli. Qui non vi è stato il passaggio da ‘mastro’ ad allievo, da padre in figlio. In particolare nella nostra zona vi é stata una rimozione collettiva della storia e della produzione di coltelli».

Ci sono bellissimi coltelli che conservi. Sono vere e proprie opere d’arte.
«Come ho detto prima, ho innanzitutto il coltello che mi ha donato mio nonno, finemente lavorato e inciso in maniera impeccabile... la ‘coltella’  era lavorata in questo modo perché era il coltello del costume e dell'identità dei calabresi, che la portavano alla cintola dei pantaloni e la mostravano con orgoglio e vanto».
 
Ma il coltello era anche altro.
«Nelle nostre zone, un coltello poteva fare la differenza tra la vita e la morte, in quanto in tanti si spostavano nel bosco, attraversavano la Sila per raggiungere i campi da coltivare. A quell'epoca la montagna era molto pericolosa, sia per gli animali ma soprattutto per le bande armate. Quindi il coltello serviva per difendersi e talvolta per sopravvivere nella montagna».

Probabilmente nelle case dei calabresi se ne conservano tanti così pregiati.
«Sì, tanti. Ma devono essere ritrovati, perché tenuti ancora nascosti, come ai tempi della repressione sanguinosa del brigantaggio nella nostra zona. Erano coltelli che venivano utilizzati anche dai briganti, quindi furono banditi. Altri li custodiscono in maniera gelosa, come fece mio nonno, e non ne hanno mai parlato con nessuno, figuriamoci esporli in un museo».