Alla vigilia dell’elezione del successore di Giuseppe Saragat, le credenziali presidenziali del giurista partenopeo c’erano tutte, ma tuttavia la Dc indicò come candidato ufficiale Amintore Fanfani. A far decidere i democristiani al cambio di cavallo e mollare lo statista aretino, saranno i superiori interessi del partito e quelli di uno Stato che tuttavia, secondo la concezione «eusebiana», era al servizio della Dc
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Se l’elezione di Saragat rappresentò una novità politica, la sua presidenza, almeno a detta dei maggiori osservatori e analisti dell’epoca, non fu particolarmente significativa. Una presidenza coerente con le convinzioni politiche del leader socialdemocratico, sostanzialmente equilibrata e costituzionalmente corretta, ma che non lascerà una traccia profonda. Il limite di Saragat e più in generale del suo settennato è di non aver compreso appieno le grandi e convulse trasformazioni politico-sociali che il paese cominciava ad attraversare. È sbalordito, incapace di coglierne il significato, le sue reazioni sono affidate a telegrammi e a messaggi sovente ampollosi e scontati, su cui non mancheranno critiche ed ironie. Lasciato il Quirinale, nel dicembre 1971, dopo l’elezione del successore Giovanni Leone, Saragat tornerà alla politica attiva come presidente del suo vecchio partito, dove tuttavia troverà una situazione diversa da quella che aveva lasciato: spostato più a destra, il Psdi è in aperta polemica con il Psi sul tema degli «equilibri più avanzati», cioè di una maggioranza potenzialmente estesa al Pci. Saragat continuerà ad operare in intesa con Nenni – al quale, prima di lasciare il Quirinale, aveva concesso il laticlavio a vita – per ricreare un governo di centro-sinistra, che rinascerà nel 1973 con un quarto e quinto governo Rumor.
Poi con il crescere della violenza, con l’assassinio di Moro che lo colpisce profondamente e le vicende dello scandalo Lockheed che travolgono Tanassi, da sempre il più leale esecutore delle politiche di Saragat, l’ex presidente si allontana gradualmente dalla scena politica per rivolgersi sempre più spesso alle amate letture dei classici della politica e della letteratura. Ma nel marzo del ’79 Pertini gli offrirà inaspettatamente un’ultima occasione: quella di creare un governo di solidarietà nazionale come presidente del Consiglio, con Andreotti e La Malfa quali vicepresidenti. L’immediata e forte reazione della Dc, che reclama per un suo uomo la guida del governo, induce Pertini a fare marcia indietro e a dare l’incarico ad Andreotti, con Saragat e La Malfa vicepresidenti, ma l’ex presidente non ci sta. Farà qualche occasionale apparizione in Senato, a qualche cerimonia ufficiale e ai congressi del Psdi, di cui negli ultimi anni dovrà assistere al lento sgretolamento, sotto le accuse di corruzione che colpiranno i suoi segretari, prima Longo e poi Nicolazzi. Si spegnerà l’11 giugno 1988, alla soglia dei novant’anni.
Il duello di Leone con Fanfani per il Colle
Al momento dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, il 9 dicembre 1971, Giovanni Leone è in pole position. In realtà, il candidato ufficiale del partito all’inizio delle votazioni era Amintore Fanfani, ma già la sera dell’8 dicembre un gruppo di democristiani, tra cui autorevoli esponenti della direzione, si recava a casa di Leone a proporgli la candidatura in caso di fallimento di Fanfani. Sull’uomo politico aretino pesavano storiche divisioni e antiche antipatie, ma questa volta la sua candidatura si presentava con maggiori possibilità rispetto al passato, sia perché Fanfani aveva attenuato le sue asprezze caratteriali, sia perché negli ultimi anni si era spostato verso posizioni più moderate. In un frangente come quello che il paese stava vivendo, la Dc avrebbe potuto puntare sull’immagine dell’uomo forte che continuava a caratterizzare Fanfani. Ma fin dall’inizio delle votazioni il candidato delle sinistre, il leader socialista Francesco De Martino, con 397 voti superava Fanfani, che si fermava a 384.
Le sinistre sapevano di non avere i numeri per l’elezione di un presidente che uscisse dalle loro file e pertanto quella di De Martino era una candidatura di attesa o di bandiera. Ma le votazioni successive non sbloccheranno la situazione, dimostrando l’esistenza di un consistente numero di «franchi tiratori» all’interno della Dc. Dopo il settimo scrutinio la Democrazia cristiana si astenne dal voto, si disse, per evitarne la dispersione in attesa che maturasse il quorum necessario per il suo candidato, che restava Fanfani. Il 15 dicembre, all’undicesimo scrutinio, la Dc riprende a votare e Fanfani arriva a raccogliere 393 voti. Ma non sono sufficienti: i partiti alleati – socialdemocratici, repubblicani e liberali – avevano indicato il livello di almeno 400 come condizione del loro sostegno, promesso solo se la Dc avesse votato compatta per il proprio candidato. Nei giorni successivi il partito di maggioranza relativa decide di abbandonare la candidatura Fanfani, anche perché nel frattempo era emersa una candidatura Moro che le sinistre sarebbero state disposte a votare. Si profilava un compromesso storico ante litteram, simile a quello che nel ’55 aveva portato Gronchi al Quirinale con i voti delle sinistre, che avrebbe spostato a sinistra l’epicentro della politica italiana.
Nella situazione in cui si trovava il paese, stretto tra le pressioni di una destra che si mostrava sempre più aggressiva e una sinistra comunista in crescita, l’operazione Moro avrebbe approfondito le divisioni all’interno della Dc e del mondo cattolico e sarebbe stata vista con preoccupazione sia dagli ambienti confindustriali che dall’alleato americano. Solo una soluzione centrista, magari aperta sulla destra, poteva mantenere i difficili equilibri nel paese e nel partito di maggioranza. Una volta ancora la disponibilità di un uomo come Leone si rivelava il jolly che poteva chiudere la partita senza eccessive scosse. Le credenziali presidenziali di Leone c’erano tutte, ma a far decidere la Dc al cambio di cavallo saranno i superiori interessi del partito e quelli di uno Stato che tuttavia, secondo la concezione «eusebiana», era al servizio della Dc. Del resto anche i partiti laici si stavano muovendo verso questa soluzione. Saragat, che pure aveva ricevuto una cinquantina di voti, si autoescludeva dalla competizione e La Malfa – che aveva mostrato qualche disponibilità per votare Nenni, divenuto nel frattempo il candidato delle sinistre al posto di De Martino – si dichiarava a favore di Leone «per i suoi precedenti, per la sua estraneità alle lotte di parte e di corrente, per la sua lealtà alla Costituzione».
La sera del 21 dicembre i gruppi parlamentari della Dc, chiamati a scegliere in segreto il nuovo candidato del partito tra Moro e Leone, scelsero quest’ultimo: «Il margine a favore di Leone – rivelerà Andreotti, presidente della riunione – non fu molto alto e in suo favore furono quasi tutti i senatori». Il 23 dicembre al ventiduesimo scrutinio Leone otteneva 503 voti, uno meno del necessario; a Nenni candidato delle sinistre ne andavano 408. L’elezione di Leone arrivava il giorno successivo con 518 voti. Oltre alla Dc, salvo una cinquantina di «franchi tiratori», votavano per Leone socialdemocratici, repubblicani e liberali. Andavano al candidato Dc anche i voti del Msi che, a conti fatti, si rivelavano determinanti. Nel dare la notizia dell’elezione il «Corriere della Sera» intitolava a tutta pagina «Leone: un presidente fuori della mischia», con un editoriale dal titolo «Garanzia di equilibrio». Osservava Vittorio Gorresio, allora principe dei commentatori politici: «Quella di Giovanni Leone, presidente della Repubblica, è una elezione che non si può considerare come un colpo di sorpresa. Tutto al contrario, si può dire che egli sia arrivato al Quirinale con un po’ di ritardo poiché nel corso della recente esperienza politica italiana, a cominciare per essere esatti dal maggio 1962 [elezione alla presidenza di Segni], egli è stato visto più volte come il jolly di riserva, la carta buona da cavare dalla manica nei momenti difficili».
E, d’altronde, dopo aver collezionato due presidenze del consiglio definite di servizio, Leone, da tempo, era ormai considerato uno dei più forti candidati alla presidenza della Repubblica. Già durante la votazione che si concluse con l’elezione di Segni, a Leone vengono offerti da Togliatti i voti del Pci, a condizione che il presidente della Camera sospenda la votazione per ventiquattr’ore al fine di facilitare la rinuncia di Segni. Leone rifiuta e Segni riesce a passare alla decima votazione. Più vicino al Quirinale Leone sarà due anni dopo, quando, scelto dalla maggioranza della Dc come candidato ufficiale del partito, si troverà in gara con Saragat, che dopo l’elezione nel 1967 lo nominerà senatore a vita, costringendolo a lasciare l’amata carica di presidente della Camera. Ma Leone era ormai in corsa e dopo il fallimento della prima prova il partito aveva l’obbligo morale e politico di riproporlo alla prossima occasione.
Ma prima che essa si presenti Leone renderà un nuovo servizio al partito: un intervento richiestogli dalla segreteria della Dc per attenuare gli effetti della legge Baslini-Fortuna sul divorzio e mediare tra divorzisti e antidivorzisti. Grazie a quella mediazione Leone riesce a fare accettare a tutti i partiti dell’area costituzionale alcuni emendamenti migliorativi che, se da una parte gli valgono quello che qualcuno definirà il passe-partout per il Quirinale, dall’altra gli procurano più di una critica da parte degli integralisti e di una parte della gerarchia cattolica, nei confronti della quale egli aveva sempre manifestato, pur senza eccessi, rispetto e devozione. «Si intende – preciserà Leone alla vigilia del voto – che io comunque voterò contro il mio stesso progetto di emendamenti perché al divorzio da cattolico resto contrario».
Nel discorso d’insediamento Leone chiarisce subito la sua intenzione di attenersi scrupolosamente ad un ruolo non interventistico: «Non spetta a lui [al presidente della Repubblica] formulare programmi o indicare soluzioni. Gli spetta invece il compito di vigilare sull’osservanza della Costituzione e di mantenere intatto lo spirito che alimenta la nostra Repubblica democratica fondata sul lavoro». Nel corso del settennato egli si atterrà sempre a questo principio. Non eserciterà pressioni sulla nomina dei ministri, rinvierà una sola volta una legge alle Camere (quella sull’elezione dei membri del Csm per dubbi di costituzionalità), invierà un solo messaggio al Parlamento, sarà molto equilibrato nella scelta dei giudici costituzionali di sua spettanza, nominerà un solo senatore a vita (Fanfani).