Ha raccontato la Calabria, che poi ha lasciato, senza essere mai riconosciuto da essa stessa, almeno in vita, suo fine e arguto interprete. Saverio Strati ha lasciato la terra di origine per vivere nella provincia fiorentina, a Scandicci, dove nel 2014 è morto. Era nato a Sant’Agata del Bianco, nel territorio metropolitano di Reggio Calabria, il 16 agosto del 1924, quasi novant’anni prima. Ieri avrebbe compiuto 98 anni. La sua figura di notevole spessore umano e culturale è stata solo recentemente riscoperta con la ripubblicazione della sua opera omnia a cura di Rubbettino e con la rinascita del borgo natio di Sant’Agata del Bianco, nel segno della memoria, della sua casa museo e dei murales a lui dedicati.

La Calabria contadina e ruvida

Scrittore autodidatta, laureatosi a Messina che per vivere fece anche il muratore, Saverio Strati fu fine osservatore del mondo contadino della Calabria di cui seppe cogliere l’anima antica. Un uomo schivo ma dalla mente arguta e dalla fervida penna, Strati fu autorevole esponente del Neorealismo e autore di numerosi romanzi e racconti attraverso i quali, da chi lo avesse letto, avrebbe voluto essere ricordato. Un’opera vasta che rimane un instancabile tributo alla sua terra, alla fatica necessaria per lavorarla, pur dovendola un giorno lasciare. «Lavoravamo con piccone per poter pulire perbene la terra dalle erbacce. Non avevamo più unghie, dato che ad ogni colpo ci toccava levare manate di gramigna, di radici di pulicarie, di menta selvatica, di ortiche e di tante altre schifezzerie che divorano le sostanze della terra. Dietro di noi c’erano mucchi di zavorra. Montagne. La terra coltivata ne era letteralmente coperta» (da “Il selvaggio di Santa Venere” - premio Campiello 1977).

Un racconto anche amaro intriso di solitudine, isolamento, rinunce, ingratitudine, dimenticanza; una testimonianza di un distacco dalla Calabria mai completatosi, dell’emigrazione, specchio oggi più di ieri dell’identità di una società in continuo movimento, metafora di quello sradicamento la cui portata si scopre passo dopo passo e mai al momento della partenza.

La ‘ndrangheta nella letteratura

Fu Strati a parlare per primo di ‘ndrangheta in un’opera letteraria, nella sua raccolta di racconti intitolata “La Marchesina”, nel 1956, e nel romanzo più noto, "Il selvaggio di Santa Venere", che gli valse il premio Campiello - nel 1977. Il primo calabrese a vincerlo. Descrisse riti, formule, pensieri e azioni dei clan calabresi, in tempi in cui non solo il fenomeno mafioso calabrese non era noto, ma la parola ‘ndrangheta neppure si nominava. Un anno prima, il 17 settembre 1955, soltanto un altro grande intellettuale calabrese di San Luca lo aveva fatto, Corrado Alvaro sulle colonne del Corriere della Sera aveva parlato del fenomeno: «Per la confusione di idee che regnava fra noi a proposito di giustizia e d’ingiustizia, di torto e di diritto, di legale e di illegale, per gli abusi veri e presunti di chi in qualche modo deteneva il potere, non si trovava sconveniente accompagnarsi con un ‘ndranghitista».

Nel 1956 Saverio Strati cominciò a lavorare anche alla stesura del suo primo romanzo “La Teda”, seguito da “Tibi e Tascia” nel 1959. Al seguito della moglie Hildegard Fleig, si recò in Svizzera dove scrisse gli altri due romanzi “Mani Vuote” e “Il Nodo” pubblicati rispettivamente nel 1960 e nel 1966. Sempre qui venne concepito e prese forma “Noi Lazzaroni” pubblicato nel 1972 a seguire tanti altri. Poi il trasferimento in Toscana dove visse e morì.
Beneficiario dal 2009 della legge Bacchelli, che dispone l’erogazione di un vitalizio straordinario per quei cittadini che si siano distinti in un ambito del sapere o del fare, dunque delle eccellenze, e che versino in condizioni di difficoltà economiche, Saverio Strati, a lungo ignorato e dimenticato, visse un’esistenza segnata dalle ristrettezze economiche. Fino a qualche tempo fa, non era stato neppure riconosciuto, se non per la concessione del sussidio, il valore della sua opera di fine intellettuale e scrittore, anima di una Calabria tormentata ma anche sublime.
Dimenticato nella sua terra di origine, fu invece molto apprezzato all’estero. I suoi libri furono tradotti in francese, inglese, tedesco, bulgaro, slovacco e spagnolo e alcuni dei suoi racconti furono pubblicati in riviste cinesi e in antologie dedicate alla narrativa contemporanea italiana: in Germania, in Olanda, in Cecoslovacchia e in Cina.

Il ricordo della nipote Palma Comandè

La vita anche familiare di Saverio Strati è stata raccontata, nel volume "Prima di tutto un uomo", edito da Pellegrini nel 2017, dalla nipote Palma Comandè, che dello zio conserva un intenso ricordo. «(…) Sulle edizioni di allora dei racconti e romanzi di Balzac, Maupassant, Cechov, Gogol. Tolstòj ancora permangono segni a matita che facevo da piccola quando, seduta sopra una copertina sul pavimento della stanza, rifiutavo i fogli di quaderno per i miei scarabocchi pretendendo, con gran prolusione di pianto, i libri che vedevo maneggiare a lui quando si sdraiava sul lettino nelle pause di scrittura e che in varie pile sostavano sul suo scrittoio.

E quando lui, con fervide raccomandazioni, me li dava insieme con la matita, io ne assumevo avidamente la proprietà imprimendo i segni della mia esistenza, con delicatezza e a margine però, non solo in obbedienza alle sue prescrizioni, ma anche per non sottrarre a me la possibilità di decifrare in futuro il contenuto di quei segni, che dovevano essere molto importanti se mi toglievano per ore le sue attenzioni.
Così presi ardentemente a desiderare di imparare a leggere. Cosa che avvenne autonomamente e con largo anticipo rispetto al tempo canonico. Quando lui se ne accorse, volle verificare immediatamente con il primo scritto chiaro e breve che aveva sotto mano, il titolo del romanzo che stava scrivendo. Mi mise sulle sue ginocchia, lì allo scrittoio, girò la copertina del quaderno e "Leggi qua" mi disse. Io osservai per un attimo, sillabando mentalmente, poi d'un fiato "Tibi e Tascia" (…)», ricorda e scrive la nipote Palma Comandè.