Un film sospeso tra sogno e realtà riscrive l’identità calabrese a partire da Ulisse, una capra e una spiaggia affacciata su Scilla e Cariddi
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È partito dalla Calabria più profonda, quella che guarda ogni giorno la Sicilia da pochi chilometri di distanza, il viaggio pubblico di Cercando Itaca, l’ultima opera del regista Sergio Basso, in uscita nelle sale italiane dal 3 aprile. La prima nazionale si è svolta lunedì 31 marzo, tra gli spazi suggestivi del Castello di Altafiumara, sede del Polo Culturale, durante un incontro intitolato Area dello Stretto: Storia, Mito e Cinema, pensato per riflettere sul passato e sul presente di questo angolo unico del Sud.
L’evento ha rappresentato molto più di una semplice anteprima: è stato il punto di avvio di un tour che porterà il film in giro per l’Italia e, si spera, anche oltre i confini nazionali. In serata, la prima proiezione pubblica al Multisala Lumière di Reggio Calabria, ha riunito pubblico, autorità e cast in una sala gremita, testimoniando quanto il bisogno di narrazione — seria, poetica, consapevole — sia oggi fortissimo nel territorio.
A raccontare Cercando Itaca e il progetto che lo accompagna sono stati alcuni dei suoi protagonisti: Sergio Basso, il produttore Giuseppe Gambacorta, l’attore Eugenio Mastrandrea, insieme a rappresentanti delle istituzioni calabresi come la sindaca di Villa San Giovanni Giusy Caminiti, l’assessora regionale Caterina Capponi, il professor Daniele Castrizio, e la manager culturale Elisabetta Marcianò. Voci diverse, unite dal desiderio di costruire un nuovo immaginario, dove la Calabria non è sfondo, ma centro narrativo.
Un’Odissea moderna tra spiagge, dialetti e capre
La protagonista si chiama Arianna, e dalla Calabria è partita tempo fa per vivere ad Amburgo, dove lavora come abusiva. Le sue notti sono abitate da un sogno ricorrente: un uomo naufrago tra Scilla e Cariddi, che non riesce mai a salvare. Alla morte della nonna, torna controvoglia nella sua terra, sperando in un’eredità: riceverà soltanto una capra di nome Jiulia.
Sulla spiaggia, in attesa del treno per tornare in Germania, un urlo la sveglia: un uomo sta affogando. Lo salva d’istinto. Dice di chiamarsi Ulisse.
Comincia così il viaggio dentro il mito che Cercando Itaca intreccia a una Calabria reale, luminosissima e insieme dimenticata, dove si parla ancora il greco, si cammina tra grotte paleolitiche e si incontrano personaggi sospesi tra leggenda e disincanto. Ulisse è forse un pazzo, o forse è davvero lui. Sta cercando Teagene di Reggio, il misterioso “ghostwriter” di Omero, per cambiare il finale della sua storia.
Arianna e Ulisse attraversano la Calabria come due esuli moderni, alla ricerca di un senso, di una casa, forse solo di uno specchio. Ma è soprattutto Arianna, tornata suo malgrado, a dover scoprire che il ritorno, come nella vera Itaca, non è mai nostalgia, ma trasformazione.
Lo sguardo necessario dello straniero
Sergio Basso, regista milanese con un’anima da filologo bizantino, non ha avuto alcun timore ad affrontare la Calabria come se fosse casa sua. O forse proprio perché non lo era.
«È stato meraviglioso, difficoltà zero» racconta con entusiasmo. «C’è un concetto straordinario espresso da un linguista russo: lo straniero è colui che, proprio perché si stacca, riesce a vedere meglio. Non essendo del posto, si può raccontare anche ciò che chi vive lì tutti i giorni non riesce più a scorgere».
Nel film c’è la sua mano ma anche la sua visione filosofica: la Calabria come un altare aperto, da guardare con distanza affettuosa, come suggeriva Calvino. E come Calvino, anche Basso parte da oggetti semplici — una capra, uno zaino, una spiaggia — per aprire varchi mitici e narrativi.
Il sorriso delle persone, dice, è ciò che si porterà dentro più di ogni altra cosa. «Gente che ci ha aiutato anche solo durante i sopralluoghi, senza chiedere nulla. Gente che lanciava corde per salvare attori dal fango. Gente vera».
Racconta un episodio quasi epico: la grotta paleolitica Petrosa, alle spalle di Palmi, dove è stata girata una delle scene chiave. «Mentre giravamo con Giorgio Colangeli, interprete di Teagene — possibile Omero calabrese — ci avvisano che sta arrivando la tempesta perfetta. Finiamo le riprese, e appena Colangeli esce, la foresta si trasforma in un inferno di fango. I ragazzi della troupe e della comunità locale costruiscono al volo una scala di corde per farlo scendere in sicurezza. Un gesto che racchiude tutto il senso del film: radici profonde e mani tese».
E su Ulisse? Sorridendo risponde: «È anche una riflessione sul nostro tempo. Paura non ce n’è. C’è solo il rispetto, e la bellezza di poter raccontare una storia senza scappare dalla complessità».
Raccontare la Calabria ai calabresi
Se per Basso lo sguardo da fuori è stato una risorsa, per Giuseppe Gambacorta, produttore e fondatore di Pega Production, è invece una questione di ritorno. Di chi parte ma non smette di guardare indietro.
«Anch’io sono emigrato — confessa — sono andato a Roma quarant’anni fa per l’università. All’epoca partiva il 20% dei giovani. Oggi siamo all’80%. Un esodo che toglie energie, idee, speranza».
Il film nasce anche da questo: un bisogno personale di riaprire un dialogo con una terra che si racconta troppo poco e quasi mai da sé. E lo fa con uno stile ibrido, tra cinema e realtà, in cui i paesaggi diventano personaggi e i miti si confondono con i dolori del presente.
Tutto è cominciato da un fatto quasi incredibile: lo spiaggiamento dei pesci abissali tra le coste di Cannitello, che ha incuriosito Gambacorta fino a diventare scintilla creativa.
Poi è arrivata l’idea di mettere insieme due temi sociali enormi: l’emigrazione giovanile e l’integrazione, attraverso l’incontro tra Arianna e Ulisse.
«Ulisse approda a Riace. È un guerriero, come quelli che hanno ispirato i Bronzi. Ma è anche uno straniero che cerca il suo posto. Come tutti noi, alla fine, cerchiamo la nostra Itaca».
E su un possibile riconoscimento, Gambacorta non si nasconde:
«I premi sono ben accetti, ma il vero sogno è far vedere al mondo la parte bella della nostra terra. Perché non siamo secondi a nessuno».
Un Ulisse smarrito come noi
C’è qualcosa di stranamente attuale nell’Ulisse interpretato da Eugenio Mastrandrea. Non è l’eroe classico, il navigatore sicuro di sé. È spaesato, fragile, quasi stanco. E per questo, forse, più vicino a noi.
«In realtà non conoscevo così bene la Calabria» racconta Mastrandrea. «Ma poi ho scoperto che anche una parte delle mie origini viene da qui: mio nonno era di Catanzaro. Questo film mi ha portato, per la prima volta, nella terra che è anche la mia».
A guidarlo, in scena e sul set, è stato Sergio Basso: «Un capitano fantastico», lo definisce. E accanto a lui, Giulia Petrungaro, che nel film è Arianna, è stata «una compagna di viaggio splendida».
Ma è l’incontro con il personaggio a segnare il cuore dell’esperienza:
«Ulisse, nel film, è sperso, fuori tempo. Cerca di raccapezzarsi in un mondo che non riconosce più. Un po’ come capita anche a me, a volte, in questa modernità. E forse è proprio per questo che ho sentito di potergli dare qualcosa di mio».
Il mito, allora, non serve più a spiegare il passato, ma a decifrare il presente. Ulisse non torna a Itaca per ritrovare casa, ma per capire chi è diventato lungo la strada.
La memoria che genera lavoro
Nessuno più di Daniele Castrizio sa quanto il mito, in Calabria, non sia mai solo passato. Professore, archeologo e divulgatore, è stato chiamato a partecipare al film anche come voce narrante, ma il suo contributo va oltre la scena. È una riflessione profonda, quasi politica, su ciò che resta — e ciò che rischiamo di perdere.
«Ulisse come testimonial dello Stretto è un’idea bellissima» dice. Ma subito aggiunge: «Attenzione: non è solo fiction. Questo film affronta due temi reali. I figli che partono. E il bisogno di farli tornare».
Per Castrizio, il territorio vale solo se è raccontato. Non basta portare qualcuno davanti ai Bronzi di Riace, o a una fortezza, o a una chiesa millenaria. Serve una narrazione che accompagni, che spieghi, che tocchi.
«Abbiamo bisogno di un’archeologia emozionale. Non possiamo più limitarci a dire “guarda che bello”. Dobbiamo far capire perché è bello. Solo così possiamo trasformare la nostra storia in lavoro vero, non in folklore da cartolina».
C’è un passaggio che tocca nel profondo: «Forse siamo in grado di fare qualcosa di più che farci il bagno, mangiare la pizza e postare una foto. Forse possiamo costruire un futuro. Non per noi. Ma per i nostri figli».
Lo Stretto come visione
Tra le prime a credere nel progetto Cercando Itaca c’è Giusy Caminiti, sindaca di Villa San Giovanni, territorio che non è solo sfondo ma cuore simbolico del film.
«Quando il produttore Gambacorta ci ha presentato il progetto, abbiamo capito subito che era l’occasione giusta per riparlare dello Stretto in chiave culturale e identitaria» afferma con decisione.
Caminiti vede nello Stretto non solo un luogo geografico, ma un paesaggio emotivo, una soglia eterna tra partenze e ritorni, che tutti — in un modo o nell’altro — attraversiamo.
«Cercando Itaca parla della ricerca che facciamo tutti. Quella visione che ci portiamo dentro come viandanti. E che, alla fine, ci riporta sempre qui. In questo stretto indispensabile, nei suoi valori, nei suoi profumi, nella sua forza emotiva».
L’auspicio, da parte sua, è che questo film non resti un evento isolato, ma l’inizio di un percorso collettivo, che coinvolga tutti i comuni dell’area. Un viaggio condiviso, che porti alla luce quella visione «che genera identità e futuro».
Un luogo che racconta
Il Polo Culturale di Altafiumara non ha semplicemente ospitato la prima. Ne è diventato parte viva. Perché il Castello, con i suoi terrazzi affacciati sullo Stretto, i suoi viali panoramici e la sua storia, non è stato solo cornice, ma protagonista del racconto.
A sottolinearlo è Elisabetta Marcianò, manager culturale della struttura, che descrive con orgoglio la missione dell’Altafiumara:
«Da circa un anno stiamo promuovendo eventi di qualità, diventando portavoce della cultura e del territorio. Stasera celebriamo il nostro patrimonio, nella sua interezza».
Non è un caso se proprio da qui si è scelto di cominciare. Altafiumara è il punto d’incontro tra Calabria e Sicilia, tra passato e presente, tra mito e progetto.
E attorno a questo asse si muovono nomi e professionalità che credono in una Calabria culturale, generativa, viva: dal supervisor Gaetano Bevacqua allo chef Antonio Battaglia, fino a chi, ogni giorno, costruisce bellezza nel silenzio, senza telecamere.
La cultura che incide
Ma raccontare la Calabria, per davvero, ha bisogno di politiche che non restino parole. E per questo, la presenza dell’assessora regionale alla Cultura Caterina Capponi ha dato un segnale preciso.
«Il cinema è uno strumento potentissimo. È attraverso opere come Cercando Itaca che si veicolano messaggi fondamentali. E la Calabria ne ha tanto bisogno» ha dichiarato.
La Regione ha partecipato al progetto attraverso la Calabria Film Commission, ente in house, e Capponi ha ribadito con forza che l’impegno per il cinema non è un episodio, ma parte di una strategia strutturale.
«La cultura è tutto. Se fatta bene, incide sulle coscienze. E quando cambia le coscienze, cambia anche la realtà» spiega. Il suo sguardo va oltre l’occasione artistica:
«Cultura e turismo, cinema e territorio: tutto è collegato. E il cinema è anche economia, è sviluppo, è possibilità».
Sostenere il racconto della Calabria, quindi, è una responsabilità. E, forse, l’unica strada possibile per restituire a questa terra il ruolo che merita.