Originaria di Calopezzati, i suoi scatti sono stati esposti in Francia, Germania, Russia. Tra pochi giorni sarà protagonista dell'evento "ImageNation Milan" nella galleria della Fondazione Luciana Matalon assieme a 150 autori provenienti da 36 Paesi. A LaC ha parlato del suo mondo e di un progetto molto ambizioso al quale sta lavorando
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Possiamo immaginarla in piedi, i ricci scuri e i grandi orecchini, l’occhio attento sulla macchina fotografica. Oppure sdraiata sul divano, i piedi incrociati e tra le mani un libro di poesie. Perché il suo mondo è questo: foto e poesia. Ma non solo questo: innamorata del mondo, interessata al mondo, cittadina del mondo pur restando sempre, profondamente, calabrese. Curiosa, battagliera e a volte arrabbiata: di quella rabbia che ti spinge a reagire, a prendere la vita a morsi, a vivere davvero, consapevole e fiera portatrice di quel piglio politico che tutti dovrebbero avere, che vuol dire passione per l’esistente.
Pensierosa, concentrata sul prossimo progetto, un progetto ambizioso e quasi impossibile, impegnata a lavorare su quel “quasi” per scardinarlo e giungere a destinazione. Chiara G. Leone è quello che si dice un talento e lo è anche per un motivo: a volte se ne dimentica. «Soffro della sindrome dell’impostore», dice. E questa frase, che diventa un sorriso, pronunciata con quella leggera vibrazione che le attraversa la voce è allo stesso tempo una carezza.
Nata a Basilea perché «figlia della diaspora» che ha interessato molti calabresi, classe 1981, oggi Chiara Leone vive a Milano dove insegna. E nel capoluogo lombardo sarà tra i protagonisti della mostra “ImageNation Milan”, collettiva a cura di Martin Vegas che dal 23 al 29 settembre raccoglierà, nella galleria della Fondazione Luciana Matalon, le opere di più di 150 autori provenienti da 35 diversi Paesi del mondo. Un mondo in cui Chiara è già riuscita a lasciare un’impronta esportando la sua arte tra Francia, Germania e Russia. Ma il mondo è anche quel fazzoletto di terra che l’ha vista crescere, la costa ionica di cui porta con sé i colori, la sua Calopezzati e un intero territorio in cui ha intessuto legami intrisi di stima e affetto. A dicembre sarà a Corigliano-Rossano. E poi di nuovo pronta a partire.
Come si è avvicinata alla fotografia e come ha capito che era qualcosa di più che un semplice interesse?
«È successo quando mi sono trasferita a Roma per amore. La persona con cui stavo si occupava di fotografia e cinema e mi ha trasmesso entrambe le passioni, soprattutto quella per la fotografia analogica. Pian piano mi sono affrancata dalla sua visione, ho cercato una mia identità e così ho iniziato a raccontare il mondo che mi è più prossimo, quello femminile».
Ha parlato di fotografia analogica, quindi pellicola. Come mai questa scelta?
«Molti accusano le persone che scattano su pellicola di essere dei puristi. Non è così perché io scatto anche su digitale. Però è diverso l’approccio: la fotografia analogica ti educa a osservare, lo fa perché ha una finitezza che è quella delle 36 pose. Non è qualcosa di “infinito” come può essere una scheda di memoria con cui tu continui a scattare, a “ballare” intorno alla situazione e prima o poi la foto viene fuori. Con la pellicola devi esattamente pensare a quello che vuoi. Nel rettangolo devi scegliere ciò che vuoi mettere, il messaggio, la tua visione. E poi la fotografia analogica ti educa alla pazienza: non c’è cosa più bella che aspettare che un rullino si riveli sotto il tuo sguardo».
Il mondo di Chiara fotografa, come ha già detto, è un mondo femminile: protagonisti sono i corpi delle donne. Che percorso è stato quello che l’ha portata fin qui?
«È una strada che si è costruita in parallelo al mio vissuto personale. C’è un periodo che vive ogni donna: a un certo punto ci si chiede che tipo di donna si vuole diventare e si aprono delle profonde crisi. Io ho sempre vissuto male la visione che vuole la separazione tra corpo e anima e a un certo punto ho avuto un’esperienza personale in cui il corpo era diventato il mio grande limite. E lì ho capito come invece il corpo sia l’anticamera di tutte le nostre emozioni. Quando ci innamoriamo di qualcuno, per esempio, lo desideriamo anche fisicamente: il corpo è la prima parte di noi a suggerirci l’innamoramento. Ma anche quando proviamo paura, panico, ansia, quando siamo stressati: tutto viene concentrato sul corpo. È un ponte per quanto abbiamo di più intimo ma è anche strettamente legato all’identità – e quindi non c’è bisogno che si veda il volto della persona – e alla sfera emotiva».
Cos’altro le piace o le piacerebbe fotografare?
«Mi piacerebbe fotografare il silenzio. È una cosa a cui sto pensando tantissimo, è una sfida non facile. Ho iniziato a mettere giù qualche appunto, su qualche scatto che faccio in giro. Però è un progetto ambizioso, non so se ci riuscirò ma mi piacerebbe».
Per lavoro vive a Milano, per passione è spesso in giro per il mondo. La Calabria che posto ha in tutto questo?
«La Calabria è il minimo comune denominatore di tutte le mie esperienze. Quando immagino i colori delle mie foto i colori sono quelli della mia infanzia, dei posti in cui sono cresciuta: l’azzurro dello Ionio prima di tutto, che è – citando un poeta che mi piace tantissimo, Pierluigi Cappello – un “azzurro elementare”, semplice, terso. La Calabria predomina nel mio linguaggio».
Riesce a sentirsi a casa anche lontano da casa?
«Sono una persona che si adatta. Magari certe situazioni mi stanno strette perché sono un po’ nomade, non riesco a stare ferma nello stesso posto per troppo tempo. Già dopo un mese qua a Milano devo scappare due o tre giorni da qualche parte. Però fondamentalmente mi adatto».
Tra pochi giorni le sue opere saranno protagoniste, assieme a quelle di altri autori, della mostra “ImageNation Milan”, quanto è importante un evento come questo per la sua attività?
«Avevo già partecipato a una mostra a Parigi qualche anno fa con la stessa organizzazione. Sono stata ricontattata e ho aderito con piacere, ci sono tanti autori di diversi Paesi e la galleria che ospita l’evento si trova nel centro di Milano ed è un posto molto bello. È sicuramente un’ottima vetrina».
Non è il primo evento di portata internazionale a cui partecipa: c’è sempre l’emozione della prima volta o ormai riesce a essere distaccata?
«Io soffro la sindrome dell’impostore. Mi capitano queste cose e quasi sempre mi sembra di non meritarlo. Quando la curatrice di un museo della Russia mi ha contattato chiedendomi se volessi esporre da loro dicendomi “ti paghiamo tutto”, io non ci volevo credere, mi dicevo: ma questi veramente me vogliono? Insomma sì: sono sempre emozionata».
Abbiamo parlato del mondo di Chiara fotografa. Quello di Chiara e basta com’è?
«Sono una divoratrice di poesie. Credo che il mio linguaggio fotografico sia molto influenzato da quello che leggo, dalle immagini potenti che la poesia regala. Vivo del mio lavoro ma anche di questi momenti di bellezza profonda legati semplicemente alla lettura di un verso o a un’immagine che mi lascia qualcosa di sospeso. Un mio amico mi ha chiesto: “Ma secondo te qual è la differenza tra poesia e fotografia?”».
E qual è secondo lei?
«Penso che la poesia insegni a nominare le cose e anche a vederle. La fotografia, per come la vivo io, mi deve invece insegnare a dubitare: deve lasciare in sospeso, non deve dire tutto, deve anche dar fastidio a volte, lasciare un dubbio».
Il mondo della fotografia per una come lei, donna e calabrese, è stato sempre accogliente o a volte si è sentita respinta?
«Non ho avuto difficoltà. Io ho fatto anche politica e lì sì ho avuto difficoltà perché ero donna ed ero molto giovane. Con la fotografia no, forse anche perché sono andata dritta per la mia strada. Anzi ho trovato tantissimi amici che si sono dimostrati molto collaborativi. È anche vero che faccio un tipo di fotografia che non è commerciale ma più concettuale, da galleria, un ambito in cui ognuno riesce a proporre la propria storia se ne ha una. Poi certo è un mondo competitivo come tutti d’altronde, ma penso che se hai qualcosa da dire un posto, anche piccolo, lo trovi».
Ha accennato alla sua esperienza politica: è stata anche vicesindaco di Calopezzati. Quanto ci può o ci deve essere di politico nell’arte e nella fotografia in particolare?
«L’arte è politica. Tutto quello che facciamo è politica. C’è un verso di Maria Grazia Calandrone che recita: “Siccome nasce come poesia d’amore, questa poesia è politica”. Soprattutto in questo periodo storico e soprattutto noi donne dovremmo attraverso l’arte lanciare dei messaggi. Ma in generale tutte le cose che facciamo, anche nella nostra quotidianità, sono gesti politici. Figuriamoci se ci si occupa di arte e di donne in particolare».