Premessa doverosa, data la natura di questi tempi cupi, dove il sorriso finisce con l’essere sempre più raro: che non si corra, per favore, il rischio di scambiare la gentilezza ed il sorriso di Marco Scolastra, la sua educazione impeccabile, il suo savoir faire di uomo d’altri tempi, l’aplomb e la sensibilità di cui è dotato, per debolezza o timidezza. Neanche per un momento. Nell’approcciarsi ad un pianista tra i più rinomati d’Europa, atteso a Lamezia Terme domenica 7, alle 18.30 del pomeriggio, con il concerto “Ritmi e colori d’America”, la cui espressività solare risponde perfettamente al suo approccio solare alla vita ed all’arte, si deve essere consapevoli che il suo sorriso, che si traspone al pianoforte, è frutto di calma, autocontrollo, rigore e sangue freddo. Lo stesso sangue freddo che lo ha portato ad esibirsi, sorridendo appunto, di fronte alle più importanti platee d'Europa.

 

Musica e amore

Scolastra, che approda alla tappa lametina di palazzo Guzzi, ore 18.30, dopo gli appuntamenti al San Carlo di Napoli ed al Massimo di Palermo, ha per fortuna il sorriso antico dei maestri.  Quelli che non è il talento, o meglio: non è solo il talento («il mio maestro ripeteva che in un pianista il 10% è talento, il 30% è cocciutaggine, il 30% è disciplina e il 30% è lavoro», dirà a tale proposito). Non è la scuola. Non è l'estro. È la volontà alfieriana. È lo studio costante. E soprattutto, è la passione per la materia di stampo ottocentesco, protoromantico, titanico, a fare il musicista. Dietro la squisita maniera di questo uomo di ferro, c’è l’innamoramento corrisposto per la Musica, la musa ispiratrice che lo domina e lo guida dall’infanzia, quella che a sei anni lo fece iniziare a suonare per gioco con il padre, e che oggi, a cinquanta, lo ha portato nei templi della musica dove osano solo i grandi ed i folli, nella Musikverein di Vienna come nella sala Nervi, al Conservatorio di Mosca come all’Auditorium Parco della Musica.

In Calabria grazie ad Ama 

Scolastra, alla sua prima esperienza calabrese, eccezion fatta per un evento privato di qualche anno fa, ha alle spalle un 2018 segnato da tappe che definire trionfi suonerà anche retorico, ma non è troppo distante dal vero. L’esibizione nella Musikverein  di Vienna lo ha ulteriormente consacrato. Non per questo, è meno desideroso ed entusiasta di cimentarsi di fronte ad un pubblico totalmente nuovo. «Ho accettato con grande piacere l’invito dell’Ama ad esibirmi a Lamezia – dichiara, alla vigilia dell’appuntamento di domenica pomeriggio-. Credo che questa associazione stia facendo un lavoro egregio, sia da un punto di vista teatrale che concertistico, impegnandosi con grande serietà».

Lei ha suonato nei teatri più importanti d’Europa. La sua tournee, questa settimana l’ha portata dal San Carlo al Massimo. Che effetto fa scoprire circuiti minori?

«Sono sempre stimolato, nell’avvicinarmi a realtà inedite. Per il sottoscritto non esistono il teatro, la sala, l'auditorium: esiste la musica. Io suono sempre nello stesso posto. Il “luogo” dove si suona, è un luogo metafisico, appunto. Quando mi avvicino alla musica, il più grande amore della mia vita, il “dove” ha poca importanza. Quello che conta, è riuscire ad entrare in contatto con la propria arte. Quando si suona, si fa l’amore. il resto, conta poco. Certo: è l’importante che ci siano le condizioni di base. Una sala che non accoglie, rumorosa, sgradevole, rovina tutto. Cosa che non fa, invece, l’ingenuità d’ascolto, un pubblico meno avvezzo di altri, ma che comunque riesci ad emozionare».

Ogni pubblico ha dignità di ascolto, dunque…

«Certo. L’altro giorno ero a Mantova, una città di profonda cultura musicale, dove suonare è considerato un privilegio. Ebbene: per me, suonare è un privilegio ovunque. I luoghi, sono tutti uguali. Napoli, Palermo, Mantova, Lamezia. Faccio un esempio banale: se sei insieme all’amore della tua vita, stai bene in qualsiasi posto.  L’importante è riuscire ad entrare in contatto con lei, e coinvolgere in questo rapporto d’amore anche il pubblico».

 

Lei parla della sua arte come di una passione concreta...

«L’amore per la musica mi ha reso la persona che sono. Senza di lei, sarei stato diverso: più ombroso, più cupo, più triste. Esprimermi e liberarmi ad ogni concerto, trasmettere passione e arte, essere veicolo di bellezza, mi ha permesso di godermi la vita: ed è davvero un privilegio, alla fine di ogni esibizione, vedere l’effetto negli occhi della gente a cosa ha portato il tuo impegno, la tua arte: vederne lo sguardo diverso, leggerne l’emozione, è appagante. Attenzione, però: questo darsi completamente ha un prezzo da pagare. Per annullarsi, per trasmettere fedelmente ciò che il compositore voleva veicolare tramite la sua opera, ed investire ogni nostra fibra affinché questo passaggio sia totale, bisogna essere forti. Sapere che in quel momento non si è più noi stessi, ma veicolo dei grandi. Un mero tramite».

 

Annullarsi per il rispetto filologico?

«Sì. E lo, studio, capirà, è fondamentale. Non posso fare Rossini al modo di Marco. Se mi faccio prendere da quanto gira intorno a me, dalla quotidianità, è la fine. Devo guardare tutto con grande oggettività, mantenere sempre uno sguardo altissimo, prendere le distanze da me stesso, liberarmi da tutto, per mantenermi leggero. Se fossi un creatore, un compositore, sarei libero come l’aria. Potrei fare ciò che voglio, anche vivere su un eremo. Ma sono un interprete. E l’interprete ha dei doveri verso il pubblico e verso il compositore: sentire l’altro, svuotando sé stesso. Per assolverli, ci vogliono rigore e disciplina. E la forza di una preparazione salda, capace ci sorreggerti se vuoi darti ogni volta, in scena, con tutto te stesso».  

Veniamo al suo concerto lametino: “Suoni e colori d’America”. Qualche anticipazione?

«Ho proposto io questo spettacolo, che amo e che mi diverte. L’ho ideato per poter valorizzare la musica colta d’America, indagata nelle sue origini, dal Ragtime a Scott Joplin, passando per Gershwin. È un programma che faccio fa alcuni anni, e offre brani di una piacevolezza fresca, che manca alla musica occidentale. La freschezza appunto d’un paese nuovo, quale gli Stati Uniti di quegli anni. Una produzione spesso emarginata, spesso ingenua, dove bisogna saper scegliere. Eppure, in molte sue pagine, degna di star accanto alla musica occidentale. Un repertorio che tra l’altro raggiunge vette assolute con Gershwin, un genio della melodia,  nella prima vera opera americana: Porgy and Bess.  Lo stesso Ravel, che lo conobbe, alla richiesta di prender lezioni presso di lui, rispose con la celebre frase «Meglio un buon Gershwin che un cattivo Ravel». Voglio citare anche Stravinskij, che compone Ragtime per 11 strumenti nel 1918 e la Piano-Rag-Music nel 1919». 

 

Un riconoscimento ed un endorsement ripresi da lei nel suo programma, quindi.

«Certo: non a caso, parlo di “Suoni e colori d’America”. Voglio proporre atmosfere, timbri, espressioni musicali tali da rievocare un periodo ben preciso. Riconoscergli il ruolo che tanta parte ebbe anche nella musica colta europea, e che apre poi la strada all’esplosione del blues e del jazz».  

 

Programma

Louis Moreau Gottschalk (1929 – 1969)

O, ma charmante, épargnez moi! (1861)

Scott Joplin (1868 – 1917)

Original Rags (1899)

Bethena (1905)

Harmony Club Waltz (1896)

George Gershwin (1898 – 1937)

Preludio n. 2 (1926)

I Got Rhythm (1930)

Somebody Loves Me (1924)

Rialto Ripples Rag (1917) 

Alberto Ginastera (1916 – 1983)

Danzas argentinas op. 2 (1937)

John Cage (1912 – 1992)

Dream (1948)

Chick Corea (1941)

Where Have I Known You Before (1974)

Aaron Copland (1900 – 1990)

The Cat and the Mouse (1920)

El Salon Mexico (1936)