È stato un dibattito molto intenso e forte, quello maturato intorno alla presentazione del libro “L’inganno” di Alessandro Barbano. Il volume racchiude una serie di dati, fatti e circostanze che mettono a nudo tutti i limiti del nostro sistema giudiziario soprattutto quando si entra nel campo scivoloso del contrasto alle mafie.

Qui, secondo l’autore del libro, si innesca tutto un circuito fatto da magistrati, giornalisti, consulenti, prefetti che non sempre hanno come obiettivo quello di somministrare giustizia. Fin troppo facile fare l’esempio dell’ultima inchiesta di Latina, che vede coinvolta la magistrata calabrese Giorgia Castriota, accusata di una gestione discutibile delle misure di prevenzione patrimoniale. Al dibattito però hanno partecipato anche Mario Oliverio e Marco Sorbara.

Questi è stato il consigliere regionale più votato in Val d’Aosta nonché assessore al Comune di Aosta. Il 23 gennaio del 2019, però, intorno alle tre del mattino gli bussano a casa i carabinieri. Lui pensa subito ad una disgrazia, ha due fratelli e la prima cosa che pensa è ad un tragico incidente. Invece i carabinieri cercavano proprio lui. Da lì inizia un calvario durato fino a pochi mesi fa. La sua colpa? Solo quella di avere origini calabresi. Ci sono le intercettazioni che lo inguaiano. Una in particolare, quella in cui un presunto mafioso dice a un suo sodale «quello è un bravo cristiano».

Tanto basta ai giudici per definire la caratura criminale di Sorbara che fa 909 giorni di carcere prima dell’assoluzione definitiva. Giorni che gli hanno devastato la vita e in cui, più di una volta ha pensato al suicidio come strumento estremo per ridare serenità non tanto a se stesso ma alla sua famiglia. Eguale energia mette Oliverio nel raccontare la sua vicenda giudiziaria e quell’obbligo di dimora che di fatto non solo lo ha interdetto dalle sue funzioni istituzionali, ma gli ha anche tagliato le gambe per un’eventuale ricandidatura a presidente della giunta regionale. Il problema è che tutto questo è avvenuto nel silenzio del suo partito, anzi proprio dal suo partito qualcuno ha utilizzato la scorciatoia dell’iniziativa giudiziaria per un presunto rinnovamento nel Pd.

Il pubblico presente alla presentazione del libro di Barbano

«Eppure - dice Oliverio - non c’è mai stato nel dna del vecchio Pci il giustizialismo. Questa piega è partita dal 1994 con tangentopoli quando anche da noi si è insidiato questo virus. Un virus - continua Oliverio - pericoloso per tutta la società civile perché anche chi batte le mani a certe operazioni giudiziarie non si rende conto che alcune iniziative a strascico in cui si mettono insieme mafiosi conclamati e persone per bene rischiano di sminuire il lavoro della magistratura».

Questo è un concetto che quasi tutti gli intervenuti hanno tenuto a ribadire. Il punto non è gettare il bambino con l’acqua sporca, ma difendere l’azione giudiziaria dai suoi eccessi per aspirare ad avere, come dice il presidente nazionale dell’Unione Camere penali, Gian Domenico Caiazza, una giustizia giusta. Per il penalista in questo momento la giustizia italiana non lo è per uno squilibrio fra i poteri che vede la politica soccombere rispetto al potere giudiziario.

Caiazza poi usa una metafora, utilizzata da un presidente della corte di Cassazione. Parlando di errori giudiziari quel magistrato disse che quando si taglia il pane, inevitabilmente si fanno le briciole. «Noi siamo dalla parte delle briciole - dice Caiazza - non solo per deontologia professionale ma perché è una questione di civiltà».

Ad accendere la miccia del dibattito era stata in precedenza Enza Bruno Bossio, segretaria dell’associazione “Riforma Giustizia". La Bossio cita Oliverio e Sorbara, ma anche molti dei presenti in sala come Marcello Manna, il suo vice Annamaria Artese, Francesco De Cicco. L’obiettivo dell’associazione dice, è contrastare l’arrendevolezza della politica su questo terreno.

«Norme penali eccezionali o lacunose", interpretazioni giurisprudenziali contraddittorie, protagonismo mediatico di alcuni pubblici ministeri, e, infine, diffusi comportamenti e interessi della stampa scandalistica - ha detto la Bruno Bossio - contribuiscono a trasformare molte inchieste penali in arene populiste. Questo processo degenerativo si rispecchia nella sfiducia crescente dei cittadini nei confronti della giustizia».

Dopo i saluti del sindaco Franz Caruso, che nel suo intervento ha riportato anche la sua esperienza da penalista e gli interventi degli avvocati Chiara Penna e Roberto Le Pera, presidente della Camera penale di Cosenza, è toccato a Barbano chiudere la serata. A partire da un aggettivo che è risuonato spesso nel salone di rappresentanza del comune: “coraggio”. «Se discutere o scrivere un libro diventa un atto di coraggio significa che qualcosa non va - ha detto il giornalista - e questo qualcosa è la sudditanza della politica rispetto la giustizia. Prima c’era la separazione dei poteri, la politica faceva le leggi, il magistrato le applicava. Adesso avviene il contrario sono i magistrati che sanciscono alcuni principi nelle loro sentenze e poi la politica li codifica in leggi».

Questo porta al cortocircuito che stiamo vivendo negli ultimi anni. Barbano tira fuori storie, episodi, numeri a sostegno della sua tesi ma anche una serie di quelli che definisce “trucchetti” garantiti dalla legislazione speciale per cui, ad esempio, si è ormai ribaltato, a suo giudizio, l’onere della prova: non c’è più la presunzione d’innocenza come in uno stato di diritto, ma la presunzione di colpevolezza. Barbano poi cita una sentenza della Consulta che stabilisce che il solo fatto di avere parenti mafiosi non comporta un automatismo di affiliazione.

«Quando ho letto la sentenza - racconta Barbano - me ne sono rallegrato. Poi mi sono chiesto perché la Consulta ha dovuto mettere nero su bianco un principio così banale e così condiviso. Evidentemente ce n’era bisogno perché la tendenza era altra, non degna di uno stato di diritto».

Insomma la discussione ha fornito certamente spunti interessanti di riflessione, anche se mancava la controparte che potesse insinuare qualche dubbio nelle tesi esposte. In sala c’era un solo magistrato: Eugenio Facciolla, ma era seduto dalla parte del pubblico.