Lo scultore e pittore calabrese racconta Idros, il progetto realizzato nel Parco del Pollino che esplora il legame tra creazione, distruzione e il ripristino dell’equilibrio: «Il rapporto uomo-natura è al punto di non ritorno». Il messaggio nei colori: «Il rosso è una denuncia politica»
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Angelo Aligia è uno degli artisti italiani più originali. Scultore, pittore, ama stupire valorizzando la natura nelle sue espressioni più vere. Il suo regno è nell’alto Tirreno cosentino, ma le sue opere, le sue installazioni hanno fatto il giro degli eventi artistici e culturali più importanti d’Italia.
Il legno, le pietre, il vento, ora l’acqua. Tutto diventa arte quando passa dalle mani di Angelo Aligia. Di recente, ha sperimentato con cinque installazioni lungo il fiume Argentino e nel cuore del Parco del Pollino, nel territorio di Orsomarso, creando un dialogo unico tra arte e natura.
Come nasce il progetto?
«Nasce da una passeggiata lungo il corso del fiume Argentino, nella primavera del 2021. La pandemia mieteva vittime, e quel luogo offriva solitudine e silenzio, creando lo spazio ideale per una riflessione sulla natura e sul periodo particolare e drammatico che il mondo stava attraversando. Era anche un’occasione per interrogarsi su come la natura e la morte siano state percepite nel pensiero comune. Questo tempo particolare mi ha spinto a riconsiderare profondamente questi temi, non come una semplice ripresa del cammino interrotto con gli stessi errori, ma come una vera e propria nuova partenza. Un grado zero della consapevolezza che imponeva un approccio diverso con la natura, con la vita, con la morte».
La natura e il connotato identitario della natura dei tuoi luoghi di origine, è da sempre al centro della tua ricerca artistica che ha già preso in considerazione la terra, la pietra, il vento. Ora anche l’acqua entra entra nella tua opera.
«Per la verità con Mare Nostrum l’acqua aveva già interpretato un ruolo centrale nell’opera. Nel progetto Idros, però, l’acqua ha una funzione importante quasi di elemento fondamentale per il ripristino dell’equilibrio e delle presenze nel corso del fiume che io avevo in qualche modo violato con i miei interventi. L’acqua, pertanto, ha qui questo ruolo di azzeramento. Il progetto è nato infatti in primavera e si è concluso naturalmente con le prime piene del corso d’acqua che hanno finito col rimuovere le mie installazioni costruite mesi prima».
Quindi nell’opera rientra anche il concetto di distruzione oltre a quello tradizionale di creazione?
«Voglio chiarire bene questo concetto perché il mio intervento con le pietre corrisponde all’artificio proprio dell’arte. Ma nel mio concetto di arte c’è anche la necessità del ritorno, inteso come ripristino naturale delle cose di cui mi sono appropriato e che ho utilizzato per esprimere un mio pensiero per immagini. Le pietre che ho assemblato per dar vita alle installazioni, fin dal mio pensiero preprogettuale, erano destinate a ritornare alla loro essenza primordiale: semplici pietre nel letto del fiume, pronte a seguire la corrente e la forza dell’acqua. Pietre in qualche modo vive, perché in continuo movimento, modellate ed erose dall’acqua e dall’attrito con le altre pietre, in un processo di trasformazione incessante».
L’acqua diventa così la protagonista del ripristino del paesaggio, non solo come elemento puro e statico, ma come forza dinamica in continua evoluzione. È il movimento a renderla vitale, come accade con le maree e il flusso dei fiumi; al contrario, quando ristagna, l’acqua diventa simbolo di immobilità e morte.
«Sono perfettamente d’accordo. A conferma di ciò, il progetto prevedeva su una installazione la presenza di una telecamera che ha ripreso dalla posa della prima pietra fino al momento della completa distruzione dell’installazione. Questo ciclo di ripristino della normalità del fiume, senza le mie installazioni, ha avuto diverse fasi che hanno visto la presenza non solo dell’acqua ma anche di animali selvatici, persone, gli agenti atmosferici».
Tutto ciò nell’immagine videoregistrata metteva in scena qualcosa di mai definito e definitivo.
«E questa instabilità dell’immagine destinata a mutare e a distruggersi per tornare al corso d’acqua originario era esattamente quello che cercavo».
Possiamo leggere queste opere come metafora dell’uomo e della sua presenza nella natura?
«Certamente e torniamo al precedente concetto di ripristino e di equilibrio. E questo può essere metafora di problemi assolutamente centrali al giorno d’oggi perché, di fatto, si pone il problema del punto di non ritorno nella manipolazione della natura».
Fino a che punto possiamo intervenire avendo la certezza che la natura è in grado di riprendersi le proprie forme?
«Su questi temi mi sono interrogato e con questi lavori ho cercato di fornire un’ipotesi di risposta per immagini».
Torna qui anche il tuo utilizzo del colore rosso…
«Il rosso è come una denuncia politica, ha da sempre il valore di segnale di pericolo e me ne sono appropriato con questa stessa valenza. Un vero e proprio ammonimento verso l’uomo che in qualche misura smentisce il mio utilizzo di pietre e materiali naturali come pietre, terra, canne ed altro. Era comunque un colore biodegradabile su terracotta, ma l’ho utilizzato per rompere visivamente l’armonia naturale e usarlo come un segnale di pericolo».