Il nuovo tour aprirà al Teatro Politeama di Catanzaro. L’artista toscana ci racconta suo percorso e la sua evoluzione musicale, esplorando le radici blues e le grandi collaborazioni che hanno segnato il suo cammino
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Sono trascorsi trent’anni dal suo album d’esordio, ma Irene Grandi resta la nostra ragazza sempre. Il 3 novembre farà tappa al Teatro Politeama di Catanzaro con “Fiera di me”, un concerto evento che prende il nome dal suo ultimo singolo per poi aprire le ali e portare il pubblico in un viaggio che parte dal palco di Sanremo nel 1994 e attraversa negli anni le vallate assolate del rock, gli angoli fumosi del blues, il colore del pop.
«La vita è una questione di scelte e percorsi che a volte vanno bene, a volte vanno male, ma l’importante è averne coscienza, consapevolezza e cercare di imparare anche dagli errori».
“Fiera di me” è il titolo del tuo nuovo singolo, è un mantra che forse dovremmo ripetere spesso.
«Come no! È una canzone di forza, speranza, accettazione di sé stessi; un invito ad apprezzarsi, volersi bene anche, cercando di fare sempre scelte di cuore. È un invito a non dipendere troppo dai giudizi degli altri, ma a cercare il proprio percorso. E poi, va detto, l’apprezzamento bisogna anche saperlo aspettare nella vita, non è che arriva subito».
Fiera e anche camaleonte. Hai cambiato pelle molto spesso, perché?
«Forse è anche un’esigenza. Tutti crescono e invecchiano, niente resta uguale, però per me il cambiamento è anche la necessità di seguire qualcosa di nuovo: un desiderio, una passione, una strada non battuta. In questo modo metto alla prova me stessa e anche gli altri. Non rinnego nulla di quello che ho fatto, nonostante le difficoltà che ho attraversato».
Con “Io in blues” c’è stato un ritorno a un tuo grande amore musicale. Cosa rappresenta per te il blues?
«È stata la mia musica di formazione, quella che mi ha fatto innamorare delle grandi voci nere, delle cantanti che sono state per me delle maestre, quindi è un po’ un omaggio alle mie radici. L'album è stato pubblicato nel periodo post Covid, ed è riuscito a farmi riappropriare dell’amore per la musica che in quel lungo momento di buio e lontananza da tutti, si era un po’ appannato. Riscoprire sonorità familiari mi ha fatto tornare la carica e la voglia di cantare».
Bella l’immagine del blues che salva.
«Beh è stata una preparazione che mi ha portato fin qui, a una tournée in teatro per il mio trentennale. Ho piantato le radici e adesso sono fiorite. La mia nuova agenzia ha voluto portare avanti insieme a me questa idea, ed eccomi qui».
Trent’anni sono andati velocissimi...
«Troppo veloci!»
Ma pieni di grandi collaborazioni, Pino Daniele e Vasco Rossi, giusto per citarne due. Come sono nate queste sinergie?
«Sono stata baciata dalla fortuna. Mi hanno amata grandi artisti che mi hanno quasi un po’ scelta, credo. Pino Daniele, in particolare, desiderò farmi fare una canzone in un momento in cui lui si stava approcciando alla lingua italiana per trovare un pubblico giovane. Fu un’idea che precorreva un po’ i tempi. Pino è stata una persona di grande ispirazione per tutti noi, uno sperimentatore».
E poi è arrivato Vasco…
«E poi è arrivato Vasco, sì, forse un po’ sull’onda di Pino. Era un momento in cui ero proprio al culmine. Gli ero piaciuta come modello di donna forte, un po’ ribelle, un po’ rock. Lui diceva, ogni tanto, che ero una Vasco in gonnella. Si è proprio identificato con me come donna (ride ndr)!»
Lui ti ha dato l’eterna giovinezza con “La mia ragazza sempre”.
«Mi ha voluto premiare con questa canzone che è anche un po’ un marchio di identità. Cantare ancora oggi con grande gioia mi permette di ritenermi ancora una ragazza».
Sei stata tutor di alcuni programmi musicali. Che rapporto hai con la televisione?
«Non dei migliori, nel senso che non ho molta passione per le gare musicali. Adesso c’è questa tendenza a infilarsi in un’arena per essere giudicati. Io che non voglio essere giudicata, che canto di non dare troppo peso al giudizio degli altri, puoi facilmente immaginare che mi pongo un po’ in antitesi rispetto al trend. Sono convinta che ci sia posto per tutti gli artisti validi e che non si debba per forza prevalere su qualcun altro, specie se agli esordi».
Cosa ti manca di più degli anni 90?
«Lo spirito di varietà che prima c’era ed era anche un po’ rappresentato, nonostante all'epoca si credesse il contrario. In quegli anni non c’era tutta questa omologazione che c’è oggi. Adesso si guarda solo ai numeri e meno alla qualità».
Domanda secca: Sanremo, presente e passato o futuro?
«Mah… diciamo che Sanremo è sempre Sanremo…».
Risposta che apre all’immaginazione. Tornando alla realtà, adesso torni in Calabria, al Politeama.
«Mi ha fatto molto piacere questo invito da parte del teatro anche perché per me è anche un’occasione per tornare al sud che amo moltissimo».