Era il 24 settembre 2004 quando in un letto dell’ospedale di Locri moriva dopo una settimana di agonia Massimiliano Carbone, imprenditore trentenne titolare di una cooperativa di servizi che dava lavoro anche a giovani disabili, colpito da un colpo di lupara mentre rientrava a casa da una partita di calcetto sette giorni prima, sotto gli occhi del fratello minore. Aveva intrapreso una relazione con una donna sposata da cui ebbe un figlio, oggi 25enne.

Il delitto

Come ogni venerdì Massimiliano era andato a giocare a calcetto con gli amici insieme al fratello Davide. Con Davide quella sera era rientrato a casa, una calda serata di fine estate. Davide stava parcheggiando, mentre Massimiliano stava entrando nel giardino condominiale quando all'improvviso si accascia, colpito da un unico colpo di lupara all'addome. A sparare con un fucile a pallettoni qualcuno appostato dietro il muretto che cinge il giardino. Venne portato di corsa al Pronto Soccorso dell'ospedale di Locri. La famiglia Carbone riferì subito agli inquirenti quale poteva essere l'origine dell'azione violenta. Massimiliano lottò sei giorni in ospedale tra la vita e la morte. «Prenditi cura di mio figlio» le ultime parole che pronunciò alla madre prima di morire il 24 settembre, il giorno del compleanno di Liliana.

Le indagini

Le indagini apparvero subito lacunose, infatti nessun rilievo fu effettuato dai RIS e la perizia balistica venne eseguita solo 22 mesi dopo. Dopo 30 mesi il corpo venne riesumato per l'esame del Dna e il riconoscimento della paternità di Massimiliano. L'unico indagato è stato prosciolto grazie a un alibi fotografico che lo ritraeva a una festa di compleanno. Il caso fu archiviato nell'ottobre del 2007.

La lotta di mamma Liliana

Da allora, Liliana Carbone non ha mai smesso di lottare per ottenere verità e giustizia per suo figlio. «Un delitto maturato nella mentalità mafiosa – dice la donna, insegnante elementare in pensione - che non si risolve per la mentalità mafiosa, perché chiamerebbe in causa tutti quelli che condividono il senso dell’onore. Per molti lui se l’era cercata. Non era sopportabile che si facesse una vita, si fidanzasse e si fosse costruito un legame fortissimo con il figlio all’epoca di 5 anni».

Ma perché tanta omertà? «Sappiamo che molti sanno ma non parlano, perché chi sa non vuole essere trascinato dietro il carro della vergogna e del tradimento. Si sono presi la vita di mio figlio. Non maledico, ma non li perdonerò mai». Per mamma Liliana in questa vicenda «Ci sono stati errori di investigazione e tanta sufficienza. Credere in una risposta giudiziaria? Non ci può essere, alcuni sono morti, alcuni sono in carcere per altri reati, tutti gli altri non possono dichiarare di sapere perché si trascinerebbero nella palude della vergogna e del disonore. Non ci credo più perché non ci sono gli elementi, e poi non ho trovato nessuno motivato che si sia accanito nelle investigazioni. Ho letto carte di tribunali e c’era tanto materiale da utilizzare».

Dalle parole della donna tanta rassegnazione, ma anche tanta dignità. «Non ci sarà mai una soluzione, ma non spero nel cambiamento – sostiene - Io e mio marito non potremmo affrontare un decennio di udienze, avremmo molteplici controparti e non abbiamo più le forze. Questo caso non si risolve perché la mentalità non è suscettibile di cambiamento, se lo sarà ci vorrà tempo».