Né chi ha sparato, né chi manifestava contro il G8 con un estintore in mano a sei metri da lui, è mai stato in carcere. Né Mario Placanica, carabiniere ausiliario prosciolto dall’accusa di omicidio, né Carlo Giuliani, ragazzo rimasto ragazzo perché il 20 luglio del 2001 morì. Ma uno dei due in carcere dice di essere finito lo stesso. In una prigione più solitaria e più scura: «Io sono morto da quel giorno come Giuliani. Sono un uomo di 40 anni che vive buttato come una cosa abbandonata. Senza amici, li cerco su Facebook ma i loro nomi non li trovo più. Senza lavoro. Senza sbocchi».

Il racconto dell'ex carabiniere

Raggiunto al telefono dall’Agi nella sua abitazione di Catanzaro, Placanica si scusa per la voce roca, che, solo quando parla della sua condizione attuale, diventa pianto: «Ho fumato tutta la notte perché non riuscivo a dormire. Sono giorni ancora più difficili, questi». Stride il racconto di una vita immobile e “muta” rispetto alle sirene di piazza Alimonda, ai colpi che esplodono alle immagini che atterrirono il mondo, preludio al rumore dei manganelli sulle ossa della notte alla Diaz. L’ex carabiniere, poi impiegato al catasto per qualche anno, è in sedia a rotelle, dopo un incidente d’auto. «L’unica distrazione che ho è guardare mio zio che annaffia alle 4 e 30 del mattino, che devo fare? Non lavoro dal 2014. Ero in graduatoria per un posto al Ministero dell’Interno ma poi sono stato dichiarato inabile. E da inabile, a differenza che da invalido civile, non posso avere un impiego pubblico. Sono bravino col computer, anche se ora pure la vista mi sta lasciando. Mi bruciano gli occhi perché sto troppo tempo davanti allo schermo».

La prigione, la solitudine e la morte del padre

Per un periodo è stato in comunità, «i miei genitori mi hanno messo lì per aiutarmi a uscire dalla depressione, mi sentivo un po’ meglio». Poi la prigione si è riaperta, c’è entrato anche il dolore per la scomparsa del padre: «È morto l’anno scorso, giovanissimo. Nei giorni successivi ho aspettato che si presentasse un rappresentante dello Stato, uno qualsiasi. A dirmi: «Signor Placanica, non si preoccupi, siamo con lei». Bastava che suonasse anche un vigile del Comune, un qualsiasi funzionario. Ho sofferto tantissimo che nessuno abbia bussato». Su Carlo Giuliani, sulla sua famiglia, sul loro di dolore Placanica si esprime in modo chiaro, netto: «Quello che è successo al G8 è stata una cosa molto brutta, eravamo due ragazzi che portavamo ideali diversi, ma due ragazzi». 

Il desiderio di chiedere scusa

«Io servivo lo Stato, Giuliani manifestava. Soffro pensando a Carlo, era un ragazzo come me. Ho incontrato Giuliano (il padre di Carlo, lo chiama per nome, ndr) due volte, per caso o forse perché aveva organizzato la moglie, alla stazione Termini. Ci siamo stretti la mano. Ma sento di avere il dovere di incontrare anche la mamma». «Per chiedere scusa, ma non perché sono un assassino – sottolinea -. Io non lo sono. Ho creduto che era impossibile difendermi e ho sparato due colpi in aria. Non mi rendevo conto di quello che stava accadendo, avevo 20 anni». Una perizia ha stabilito che uno di quei due proiettili sarebbe stato ‘deviato’ da un calcinaccio trafiggendo Carlo Giuliani. L’indagine su di lui si è chiusa presto, non è mai diventata processo. «Sono stati fatti tanti processi sul G8 ma ci sono dei colpevoli mai scovati e mai processati, nemmeno individuati in tutte le commissioni d’inchiesta in Parlamento. Sono ancora nell’Arma, sono quelli che sapevano e stanno in silenzio da 20 anni». La versione di Placanica è contenuta in un libro appena uscito scritto dal suo collega Andrea Di Lazzaro. Si intitola “Distrutto dall’atto dovuto”. In fondo alla sua prigione l’ex ragazzo che sparò e che ora dice «Non mi va bene un giorno che sia uno, nella mia vita» ha ancora un velo di speranze. «Vorrei girare un po’ per parlare di questo libro e vorrei lavorare. Vorrei tanto che qualcuno mi aiuti a uscire da qui».