Narcotrafficanti che movimentano enormi quantitativi di cocaina da una parte all’altra del globo, la cresta su una grossa partita di stupefacente, un fiume di denaro in ballo, la ’ndrangheta che sospetta l’inganno, un broker crivellato da una pioggia di fuoco e piombo, i boss che mandano un loro emissario ad investigare su chi sia il traditore. Sembra la trama di un crime movie, ma è cronaca giudiziaria. A scriverla è la Guardia di finanza, Compagnia di Vibo Valentia, in un’annotazione depositata all’attenzione della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro il 18 febbraio 2013 e richiamata negli atti del procedimento denominato Adelphi, che dopo dieci anni di indagini approda davanti al giudice dell’udienza preliminare, davanti al quale sono in settanta a doversi difendere, accusati, a diverso titolo, di narcotraffico.

Nelle pieghe di quelle carte, rese ostensibili dall’ufficio del procuratore Nicola Gratteri, potrebbe celarsi il movente (la trama, appunto) dell’omicidio di un broker del narcotraffico del calibro quasi pari a quello di Bebé Pannunzi e di Rocco Morabito il Tamunga: Vincenzo Barbieri. E qualora non fosse il reale movente, quello descritto, di un delitto eccellente nel panorama del crimine internazionale, resta la lucida ed efficace descrizione del contesto, il punto di partenza di un’indagine (quella sull’omicidio) che quasi dodici anni dopo il feroce agguato non è ancora giunta a conclusione.

L'omicidio di Vincenzo Barbieri

È il 12 marzo del 2011, San Calogero, provincia di Vibo Valentia, un’area cuscinetto tra le potenti enclave mafiose di Limbadi e Nicotera, della Piana di Gioia Tauro e del Poro. Da qui Vincenzo Barbieri, classe 1956, conosciuto come il Ragioniere o Penna bianca, unitamente al fidato Franco Ventrici, avrebbe costruito un impero grazie all’oro bianco, riciclando in provincia di Bologna gran parte delle fortune accumulate. È un pezzo da novanta, Barbieri, che tratta coi cartelli sudamericani, con i terroristi delle Autodefensas unidas del Colombia ed i guerriglieri delle Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia. È tardo pomeriggio, Barbieri conversa all’esterno della tabaccheria di Biagio Milano, che i militari delle Fiamme gialle – quelli di Vibo Valentia che lavorano in sinergia con i colleghi di Trieste – considerano uno dei suoi uomini di fiducia. Giunge un commando composto da tre uomini che, con il volto travisato ed incuranti della presenza di numerosi testimoni, gli scaricano addosso venti colpi di fucile calibro 12 e pistola 7.65. «Finendolo – scrivono i finanzieri – con un colpo di grazia alla testa». «Qua davanti hanno sparato a Vincenzo Barbieri! È successo un macello, non so. Noi eravamo dentro. Non lo so se è morto, sono scappati all’ospedale! Non lo so…», dirà Biagio Milano, in una telefonata alla moglie, pochi minuti dopo. Il broker del narcotraffico giungerà in ospedale esanime.

Le indagini

Quasi due anni di investigazioni, consentono alla Guardia di finanza di diradare parzialmente la nebbia, sospettando che l’azione di fuoco sia stata ordita dall’articolazione del clan Mancuso capeggiata da Pantalone Mancuso alias Scarpuni, oggi ergastolano. Barbieri – si apprende dalle annotazioni delle Fiamme gialle - «si era impossessato» di «enormi quantitativi di stupefacenti», le cui importazioni erano finanziate da Domenico Campisi, altro potente broker, a sua volta legato a Scarpuni «attraverso i cognati Roberto e Salvatore Cuturello». Il Ragioniere, in pratica, spiegano gli inquirenti, dei panetti di coca «si era impossessato facendo credere allo stesso Mimmo Campisi di averne importati delle quantità inferiori, mentre in realtà ne aveva importati quantità superiori, cedendoli ad altri acquirenti senza renderne conto, appunto, al Campisi ed ai suoi accoliti». Campisi e i Mancuso, dunque, lo avrebbero voluto morto. In seguito, però, anche Campisi sarebbe stato scaricato dagli stessi Mancuso.

A corroborare questa ricostruzione, alcune intercettazioni ambientali acquisite dalla Squadra mobile di Bologna che tra il 13 ed il 19 gennaio precedenti all’omicidio, avevano attiva una cimice nella villa di Franco Ventrici in via Paolini a San Marino di Bentivoglio, provincia di Bologna. I poliziotti emiliani avevano infatti registrato una conversazione tra Ventrici, Barbieri e un terzo uomo, chiamato «compare Rocco», che sarà identificato in Rocco Jiritano, emissario del cartello Ursino-Macrì-Scali di Gioiosa Jonica. «Compare Rocco», secondo le acquisizioni investigative, era l’uomo inviato proprio dai Mancuso affinché chiarisse la posizione sia di Barbieri che di Ventrici, «sospettati di fare il doppio gioco».

Era un momento di gravi tensioni. Nell’estate precedente l’agguato di San Calogero, infatti, siamo quindi all’agosto del 2010, scomparve da Nicotera, inghiottito dalla lupara bianca, Salvatore Drommi, considerato il braccio destro di Domenico Campisi. Il 17 giugno del 2011, invece, fu proprio Campisi a cadere in un agguato, trucidato da due sicari a bordo di una moto. Lo stesso Jiritano riteneva Pantaleone Mancuso alias Scarpuni coinvolto nella sparizione di Drommi, mentre il pentito Arcangelo Furfaro, qualche anno dopo i fatti, indicò in Dominic Signoretta e Giuseppe Mancuso, figlio di Pantaleone alias l’Ingegnere, gli assassini di Campisi.

L’ombra dei due cugini Mancuso – nati nello stesso anno, il 1961, ma in mesi diversi, Pantaleone detto Scarpuni ad agosto, Pantaleone detto l’Ingegnere a settembre – incombe su ogni trama: unitamente al feroce boss di Zungri Peppone Accorinti, e ad un altro Mancuso, Antonio, 39enne figlio del mammasantissima Giuseppe detto Mbrogghija, avrebbero finanziato una colossale importazione di narcotico dal Sud America. Sono loro, oggi, i principali imputati nel processo Adelphi, sul cui sfondo affiorano i contorni dell’omicidio eccellente di Vincenzo Barbieri, ma anche la ricostruzione di vicende che certificano la straordinaria capacità della ’ndrangheta di trattare alla pari – Nicola Gratteri docet – con i narcos messicani, colombiani, spagnoli.