Ferri di richiamo a vista, mattoni nudi, pilastri scrostati: un “patrimonio” di nonfiniti così esteso e comune da diventare ormai parte integrante del paesaggio stesso nella Calabria degli ultimi 70 anni. E che ora diventa protagonista nella tesi magistrale in arti visive della giovane catanzarese Alessia Rubino che quel patrimonio di ecomostri disseminati sul territorio «come ordigni inesplosi» lo ha studiato a fondo, collegandolo direttamente alle caratteristiche di un popolo (quello calabrese), che quello stesso fenomeno lo ha cavalcato e subito.

Lo studio di Rubino è un salto nel vuoto nell’infinito cantiere aperto dei paesini calabresi, devastati da colate di cemento disordinate e atomizzati dalla promessa di un futuro mai realizzato che ha lasciato il posto a palazzoni vuoti e scheletri in cemento armato: surrogati artificiali di una finta opulenza economica «di una terra senza responsabilità, sicura di vivere secondo le sue regole. Una consolazione al suo giacere assonnata, abbandonata, in disordine come una partita di scacchi lasciata per anni su un tavolo». Un’architettura a brandelli figlia di un malcostume antico e che colpisce il pubblico – con le sue decine di inutili “cattedrali” incompiute – e il privato, con le città e i piccoli centri, soprattutto nel Reggino, che sono «il disegno di un’epoca che celava il fallimento e coltivava l’errore».

Cemento amato

Parte dello studio di Rubino, discusso alla scuola di Lettere e beni culturali dell’università di Bologna, si basa su “Cemento amato”, il lavoro di Angelo Maggio, irriverente fotografo etnografico catanzarese che, tra i primi, ha cristallizzato l’assuefazione al nonfinito da parte dei calabresi. Tra le pagine scorrono gli scatti del Cristo in processione a San Luca con l’immancabile sfondo di mattoni rossi di una casa non finita e di Miss Italia portata in trionfo tra gli scheletri da città bombardata del corso principale di Sinopoli. Ma anche i faccioni dei politici regionali e nazionali, immortalati in imbarazzanti cartelloni 6X3 allestiti sui rottami di un ecomostro e le stesse istituzioni periferiche dello Stato, capaci di elevare ad ufficio pubblico stamberghe prive anche dell’intonaco grezzo, in una devastazione in cui «è stato il futuro a guidare i cantieri, più del cemento; la stessa idea di futuro che ha pensato la non finitezza come incertezza fertile e come possibilità di un vivere più democratico» in una corsa verso miraggi di scampoli di lusso «indifferenti a qualsiasi idea di bene comune. Nelle architetture non finite si specchia il vivere incerto e sospeso di un mezzogiorno che non ha risolto la sua arretratezza e la sua dipendenza economica e che si manifesta nella frustrata fruizione del territorio da parte dei suoi abitanti e nella poca fiducia che sono disposti a investirvi».

Seconda vita

E se da una parte i nonfiniti restano «inutili cicatrici di malattie antropologiche e sociologiche, che vanno ricordate solo perché non si ripetano», dall’altra c’è chi, come il collettivo Alterazioni Video in collaborazione con Fosbury Architecture «rivendica il valore estetico dell’incompiuto e ne valorizza la possibilità di farsi contenuto politico per il futuro». Come nel caso di Returnable Empties, il progetto del “Laboratorio Rosarno” guidato da Stefano Boeri, che nel 2010, l’anno della rivolta degli extracomunitari per le vie della cittadina tirrenica, aveva immaginato «di colmare col bisogno casa degli immigrati il vuoto disabitato di Rosarno, come un’associazione di promozione sociale che fa da tramite tra proprietari e nuovi occupanti».