VIDEO | Racconta gli episodi che potrebbero aver indotto la giovane ginecologa a compiere un gesto estremo: «È stata vittima di un abuso di potere, sia fisico che psichico»
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Le nostre telecamere avevano immortalato Sara Pedri il 31 ottobre 2018 in occasione dell’inaugurazione del centro di procreazione medicalmente assistita di Catanzaro, al tezo piano dell'ospedale Pugliese. La 31enne scomparsa nel nulla il 4 marzo scorso in Trentino, dopo essersi laureata a Ferrara, cinque anni fa era arrivata a Catanzaro per completare il suo percorso di specializzazione all’università Magna Graecia conseguendo la laurea specialistica il 9 novembre 2020.
La promettente ginecologa da poco era in servizio all’ospedale di Cles, prima ancora al Santa Chiara di Trento e proprio dentro quell’ospedale, dove è partita anche un’indagine interna dell’azienda sanitaria, si sarebbero verificati episodi che avrebbero portato Sara a compiere un gesto estremo. A raccontarlo è la sorella Emanuela, che parla di abuso di potere da parte dei suoi superiori, di turni di lavoro massacranti, di umiliazioni che l’avrebbero indotta anche a dimettersi nonostante quel lavoro che negli ultimi mesi l’aveva sfinita fino a farle perdere peso e a chiudersi in se stessa, fosse il sogno di una vita.
«Vittima di abuso di potere»
«Secondo me Sara è stata proprio vittima di questo abuso in tutte le sue forme, sia fisiche che psichiche. Io sin da subito ho cercato di contattare più persone possibili all’interno dell’ospedale. Avevo bisogno di ricostruire qualcosa che non ero riuscita a fare con Sara poiché si era ridotta in un modo tale che non riusciva nemmeno a parlare della sua situazione. Ho dovuto far questa ricerca mentre non stavo bene, con grande fatica, e ringrazio chi ha trovato il coraggio di parlare. Noi familiari non potevamo immaginare, ci siamo sentiti impotenti perché non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo. Lei era sempre distante, faceva sempre più fatica a parlare, sussurrava, non era più Sara. Quando è tornata a casa ci ha raccontato degli episodi da non credere. È stata colpita sulle mani, schiaffeggiata con uno strumento utilizzato per i cesarei, è stata invitata ad allontanarsi, ad uscire fuori dalla porta, per usare dei termini eleganti, è stata spintonata, è stata verbalmente aggredita. È stata accolta dal personale che ha assistito ad ogni minima cosa e che sto aspettando che venga da me a raccontare perché ci sono testimoni oculari. Io chiedo a queste persone che abbiano il coraggio oggi di parlare. È stata anche percossa durante un parto cesareo in sala operatoria davanti alla paziente. Mi piacerebbe parlare con quella paziente perché non penso che non abbia capito cosa stava succedendo e la cosa che mi fa più male è che non sono riuscita a proteggere mia sorella perché non ero lì», dice Emanuela con le lacrime agli occhi.
Discriminata per gli studi in Calabria
Ma non è tutto. Sara, il cui caso è diventato ormai nazionale, sarebbe stata discriminata per essersi specializzata in Calabria: «Era un atteggiamento che veniva riservato a tutti coloro che si formavano fuori. So infatti anche di altre persone che sono state discriminate allo stesso modo. Probabilmente consideravano il Santa Chiara come un ospedale di eccellenza e quindi coloro che si formavano fuori, soprattutto nel Sud Italia, venivano considerati non all’altezza. Un atteggiamento discriminante perché c’è razzismo alla base».
L'appello al ministro Speranza
E proprio da Catanzaro, da quell’ambiente che ormai Sara considerava una seconda famiglia, è partito l’appello di Roberta Venturella, responsabile del centro di procreazione medicalmente assistita e docente della scuola di specializzazione che ha vissuto fianco a fianco con Sara gli ultimi 5 anni. È stata lei a scrivere al ministro della Salute, Roberto Speranza per chiedere chiarezza, solidarietà e supporto: «Senza voler entrare nel merito di vicende personali o accanirsi contro i colleghi, chiediamo soltanto che questo episodio, se è legato ad un problema in ambiente lavorativo, che probabilmente non è il primo né l’ultimo, almeno che serva a qualcosa affinché una cosa del genere non accada più. Sara era una ragazza molto motivata, qui è rimasta nel cuore di tutti, nel personale, tra le pazienti. Quando è andata via da qua mi ha abbracciato, io le ho detto che qui ci sarebbe sempre stato un posto per lei. Sara però era troppo felice di aver vinto un concorso a tempo indeterminato, era quello che voleva. Non possono essere i turni di lavoro, non può essere la sola solitudine a spingere una persona, una professionista, a compiere un gesto del genere».
Che fine ha fatto Sara?
Sara era fidanzata da due anni con un ragazzo cosentino, è stato lui l’ultimo a sentirla. La sua automobile è stata ritrovata nei pressi di un ponte a circa 40 km da Trento. Nessuna pista al momento viene esclusa e se da una parte c’è chi non nutre ormai alcuna speranza, dall’altra c’è anche chi spera ancora che Sara possa essere viva: «Non ci sono indizi che facciano pensare ad una fuga – dice la sorella Emanuela - e poi Sara non si reggeva in piedi, non avrebbe mai potuto organizzare una fuga perchè non aveva le energie per farlo. Qualora avesse avuto la forza, l’avrebbe usata per difendersi dagli attacchi, dalle discriminazioni, dall’aggressività di due persone anche se a volte si fa fatica a ribellarsi».
«Io non ho accettato l’idea che non sia più tra di noi – dice il direttore del reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Pugliese Ciaccio di Catanzaro, Menotti Pullano -. Spero che Sara abbia potuto intraprendere un’altra strada. Era una persona che si faceva amare, sono stato io ad attribuirle il nomignolo di “Red bull” così come faccio con tutti gli specializzandi. Era molto affezionata a me e ho avuto modo di conoscere anche la sua famiglia. Quando è andata via non ho avuto più notizie da parte sua e questo mi ha un po’ preoccupato. Tanto è vero che probabilmente gli inquirenti avranno trovato anche qualche mia telefonata fatta nell’immediatezza della scomparsa perché pensavo di poterla raggiungere per cercare di chiarire con lei. Ma non ho elementi per poter dire che sia scomparsa, può essere che abbia intrapreso una vita diversa, era una persona molto attiva per poter pensare diversamente».
Altri episodi di discriminazione
In attesa che si faccia piena luce sulla vicenda, Emanuela, più grande di Sara di 14 anni e madre di due figli, sta portando avanti una vera e propria battaglia anche per chi, come la sorella, è vittima di mobbing e demansionamento. Quello di Sara infatti non sarebbe l’unico caso di discriminazione nell’ospedale trentino: «Sono venuta a sapere che tante persone non stanno bene. Ci sono ragazze che stanno male perché vivono quello che ha vissuto mi sorella. L’hanno distrutta, l’hanno completamente distrutta. C’è chi si è dimesso ma c’è anche chi sta soffrendo e c’è ancora tanta paura. Io non mi arrendo e spero che il mio sforzo e il sacrificio di Sara possano servire ad aiutare tutte le altre ragazze affinchè capiscano che devono cominciare a difendersi e che possano trovarsi in un ambiente molto più sereno di quello che Sara ha lasciato. È questo il motivo per cui porto avanti questa battaglia perché Sara non me la riporta più nessuno indietro. Il lavoro di Sara era una missione e io le voglio dare dignità e continuare in questa missione».