Quello che stiamo per raccontarvi potreste averlo sentito centinaia di volte dalla voce interrotta dei vostri nonni, protagonisti, loro malgrado, del dramma della Seconda guerra mondiale. La differenza è che sono passati ottanta anni e le parole, adesso, sono quelle di un nostro corregionale che sta vivendo in prima persona il risultato dell’ennesimo esercizio di oblio della storia.

Vivere sotto le bombe

Giuseppe, lo chiameremo così d’ora in poi per proteggerne l’incolumità, è un quarantaseienne calabrese, da quattordici anni residente nella zona orientale dell’Ucraina, dove vive con moglie e figlio. Come altri milioni di ucraini, la mattina del 24 febbraio si è svegliato con le truppe russe alle porte. E da lì è iniziato l’inferno: una pioggia di missili e proiettili che quotidianamente cade intorno alla sua abitazione, al centro dello scontro tra milizie ucraine e russe.

«Per fortuna abbiamo un bunker a venti metri da casa - ci racconta in collegamento telefonico -, anche se non è proprio un bunker, ma il sotterraneo di una palazzina. Non appena sentiamo i bombardamenti in lontananza ci rifugiamo lì, quattro o cinque famiglie, in tutto una ventina di persone, compresi dei bambini. Fa molto freddo, siamo a -5 gradi là sotto, non ci sono i riscaldamenti e spesso siamo costretti a usare un generatore a benzina per avere la corrente elettrica che va e viene. Ieri è mancata tutto il giorno».

Una condizione di grande difficoltà, che si aggrava sempre di più con il passare delle ore. Le vie di comunicazione sono interrotte, il carburante scarseggia e anche i viveri potrebbero durare poco: «Domani o dopodomani – continua Giuseppe - i supermercati saranno sicuramente chiusi perché i tir non arrivano più. Carne zero, pane niente. Fra un paio di giorni non ci sarà più niente. Chi ha fatto la scorta tira ancora per qualche giorno, per gli altri saranno grossi problemi».

«Noi uomini dobbiamo nasconderci»

Già, perché non bisogna guardarsi solo dalle truppe di entrambi gli schieramenti, ma anche dai civili: «Dalle 18 c’è il coprifuoco, se esci ti sparano, sia che ti vedano i russi sia gli ucraini, ma la cosa peggiore è che l’esercito ha dato armi a tutti, anche donne e bambini, e quindi ognuno è un potenziale killer. Oltretutto sono iniziati episodi di sciacallaggio, le case qui intorno sono state prese d’assalto e svuotate completamente, devi guardarti da chiunque, per questo facciamo i turni di guardia. E poi c’è il pericolo che le truppe ucraine ti prendano e ti portino a combattere. Anche se, da cittadino italiano, mostrassi il passaporto, non credo che gli interesserebbe molto. Per questo a fare la spesa vanno solo le donne, noi uomini dobbiamo nasconderci».

La voce di Giuseppe resta sempre ferma, non mostra sussulti emotivi, anche quando ci parla dei bombardamenti a poche centinaia di metri da casa sua. Bisogna resistere, ma senza sapere fino a quando: il contatto con la Farnesina c’è stato, ma al momento l’unica soluzione è raggiungere l’ambasciata italiana a Kiev, che dista centinaia di chilometri: «Come facciamo ad arrivarci se le strade sono interrotte, la benzina non c’è e se esci ti sparano o ti portano a combattere?» si chiede Giuseppe.

«Nessuno vuole la guerra»

Gli domandiamo perché non siano partiti prima, quando sono iniziati i primi segnali di recrudescenza dello scontro: «Non ce lo aspettavamo, pensavamo che negoziassero. Poi alle 5 di mattina è partito l’attacco e siamo rimasti bloccati. Ma ci tengo a dire che nessuno qui vuole la guerra, tutti vogliono che il presidente Zelensky dica di non avere nessuna intenzione di entrare nella Nato, così la guerra finisce. In guerra non va lui, ci andiamo noi col kalashnikov».

E quando gli chiediamo se vuole rivolgere un appello alle autorità italiane, ci risponde con la disillusione di chi è sceso a visitare l’inferno: «È una guerra, non ti può aiutare nessuno».