VIDEO | È uno scenario apocalittico quello che si presenta all’indomani dello sgombero del capannone di San Ferdinando dove vivevano circa 200 migranti
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Una volante della polizia presidia il capannone ormai abbandonato. Gli accessi sono sbarrati e tutto intorno restano solo le testimonianze di una vita miserabile. È uno scenario post apocalittico quello che si presenta davanti al capannone nell’area industriale di San Ferdinando sgomberato, ieri, dalla polizia. Il paradosso è che, per convincere i circa 200 stagionali africani a lasciare questa specie di inferno in terra, sia servita una lunga mediazione portata avanti dagli agenti del commissariato di polizia di Gioia Tauro.
Una parte dei migranti fatti andare via sono stati portati alla tendopoli. Gli altri, forse, andranno a popolare uno dei tanti capannoni abbandonati che occupano a macchia di leopardo le tre grandi aree industriali sorte tra Gioia Tauro e San Ferdinando. Quello che resta dopo lo sgombero di ieri sono le tracce di esistenze fatte di stenti e miseria, portate avanti tra rifiuti e insetti che si attaccano in faccia mentre si percorre il perimetro dell’ex fabbrica abbandonata. E dall’altra parte del muro di cinta la situazione è ancora peggiore: è come un fermo immagine dell’orrore, con casupole di stracci e cartone, scheletri di auto e elettrodomestici, stivali e scarpe e indumenti di ogni genere. E materassi luridi sparsi dappertutto. Un olezzo insopportabile mozza il fiato, come il pensiero che nel nostro Paese ci siano persone costrette a vivere in un posto del genere.
È un grado di miseria a cui non siamo più abituati. Basta gettare uno sguardo al anche di là delle grate che bloccano gli accessi al capannone per capire che dallo sgombero dell’ex cartiera di San Ferdinando, primo grande ghetto degli stagionali africani, nulla sia cambiato. Dieci anni dopo nella piana di Gioia Tauro la questione immigrazione è all’anno zero. Quello sgomberato ieri non è l’unico ghetto nell’area industriale. Il più famoso, la famigerata tendopoli di San Ferdinando, resta sullo sfondo a ricordare il peso che grava sulle nostre coscienze e l’ipocrisia che continua a regolare la gestione del fenomeno migratorio in questo pezzo d’Italia.