Il 15 gennaio 1993, dopo quasi 25 anni di latitanza, l’unità Crimor del Ros catturò il “capo dei capi”. Tante le domande rimaste senza risposta, dalla mancata perquisizione del covo al caso del “papello”, contenente le richieste allo Stato per far cessare le stragi (ASCOLTA L'AUDIO)
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Palermo, quartiere Uditore. Una manciata di minuti alle 9 di un venerdì mattina d’inverno siciliano. Sulla via Gian Lorenzo Bernini c’è parcheggiato, ormai da giorni, un furgone di colore bianco. Ha i vetri oscurati da sacchi neri dell’immondizia. Solitamente, quel furgone lo si usa per lavori di edilizia. Ma quella mattina, ai numeri civici 52 e 54, non ci sono operai in attesa di iniziare il loro turno. Perché quello non è un furgone qualunque: è ciò che, in gergo investigativo, viene chiamata “Balena”. Dentro, infatti, ci sono Vichingo, Omar, Pirata, Freccia, Arciere, Pluto e Ultimo. Sono tutti nomi in codice.
Sbirulino e l'operazione Belva
Sono tutti carabinieri appartenenti alla squadra Crimor del Ros. Quella squadra di eccellenze operative impiegata solo per indagini di particolare pregio. E quella che sta prendere il via non è una operazione qualsiasi. I vertici l’hanno ribattezzata “Belva”, dal soprannome dell’obiettivo dei militari. Loro, in codice, lo chiamano “Sbirulino”. Nessuno, neppure per sbaglio, deve sapere chi stanno veramente cercando.
Su quel furgone, però, insieme ai carabinieri, c’è anche un uomo già appartenuto a Cosa Nostra. Si chiama Baldassarre Di Maggio, conosciuto da tutti come Balduccio. È lui a condurre gli uomini della Crimor sino al covo di via Bernini. Non sa con esattezza il bersaglio, ma sa che se vuole trovare Sbirulino, bisogna stare lì. Dopo giorni di attesa, arriva il momento giusto: Balduccio dà il segnale. L’obiettivo è da ricercare su una Citroen Zx azzurra. A bordo c’è Salvatore Biondino. Finalmente le squadre operative possono entrare in azione. La Citroen viene seguita per centinaia di metri da diverse auto. Alcune stanno davanti all’obiettivo, altre dietro. Arrivano all’altezza del motel Agip. Il semaforo diventa rosso.
La fine della latitanza di Totò u curtu
La Citroen arresta la marcia. È un’azione fulminea: i carabinieri si dividono i compiti: qualcuno si occupa di Biondino, uno dell’auto. Il resto di “Sbirulino”. Basta un giro di lancetta, il tempo necessario al semaforo di diventare nuovamente verde. La paura di “Sbirulino” sta tutta in quelle parole proferite con l’angoscia di chi sa di poter morire da un momento all’altro: «Chi siete?». A rispondere a questa fatidica domanda è il capo della Crimor, Ultimo, al secolo Sergio De Caprio. L’ufficiale dell’Arma fa capire che si tratta di carabinieri e non di mafiosi che stanno per eseguire una sentenza di morte. Così, nel modo più anonimo possibile in un luogo conosciuto a pochi finisce la lunga latitanza di Salvatore Riina, detto “Totò u curtu”, il boss più sanguinario che la storia italiana ricordi, il “capo dei capi” di Cosa Nostra. È il 15 gennaio del 1993 e da allora sono trascorsi esattamente trent’anni.
Chi era Totò Riina
Nato a Corleone il 16 novembre 1930, Salvatore Riina morirà a Parma il 17 novembre 2017. È colui che decide di trasformare Cosa Nostra in una vera e propria dittatura marchiata dal sangue. Lo fa con gli omicidi, facendo cadere sotto i colpi delle armi e delle bombe magistrati, funzionari di polizia, ufficiali dei carabinieri, ma anche politici e giornalisti. È una vera e propria mattanza quella che scatena in Sicilia negli anni in cui decide di prendere il potere e scalare le gerarchie di Cosa Nostra. Una strategia che trova il suo culmine con l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982 (proprio colui sotto la cui effige Riina si troverà subito dopo essere arrestato, in una foto divenuta celebre). Poi, quando il maxiprocesso alla mafia siciliana termina con una raffica di ergastoli, arriva la decisione che rappresenterà uno spartiacque ed un punto di non ritorno: le stragi di Capaci e Via d’Amelio. È in quel momento che Riina alza parecchio il bersaglio e decide l’eliminazione dei magistrati Falcone e Borsellino. Con loro moriranno anche il giudice Morvillo, compagna di Falcone, e gli uomini della scorta dei due magistrati.
Riina rimane latitante per quasi 25 anni. Dal 1969 riuscirà a sfuggire sempre alla cattura. Anche se è proprio lui ad ammettere a denti stretti che, probabilmente, nessuno l’ha mai veramente cercato, non avendo mai avuto particolari problemi a spostarsi in clandestinità con tutta la famiglia.
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Il ricordo di Ultimo: «Riina impaurito. Fu l’inizio di una lunga battaglia»
Proprio in occasione del 30esimo anniversario dell’arresto di Riina, il capitano “Ultimo”, Sergio De Caprio, ricorda all’AdnKronos quei momenti: «Di quel giorno ricordo i carabinieri che erano accanto a me, i loro sguardi, la loro umiltà, il loro coraggio, la loro semplicità. Ricordo il tempo, che aveva una dimensione fisica, l’attesa. E poi lo sguardo di Riina impaurito, come uno che tremava, uno sconfitto. Infine il vuoto, quando abbiamo iniziato a pensare alle altre battaglie. Cos’era quello, in fondo, se non l’inizio di una lunga battaglia?».
La mancata perquisizione al covo di Riina
Non ha torto, il capitano “Ultimo”. Quella di Riina non fu soltanto la fine dell’operazione Belva. Ma fu l’inizio di una coltre di misteri ancora oggi irrisolti. I fatti accertati dicono che, dal pomeriggio del 15 gennaio 1993, il covo di Totò Riina in via Bernini fu lasciato senza alcuna copertura e prima che chiunque potesse perquisirlo. I carabinieri sostengono che la decisione era di competenza della Procura. Ma i magistrati affermano che di ciò non ne seppero nulla. Sta di fatto che la perquisizione scatterà soltanto il 2 febbraio, a distanza di due settimane dall’arresto del “capo dei capi”. C’è, però, un particolare: la villa dove dimorava “Totò u curtu” è vuota. I mobili sono posti al centro della stanza con teloni a coprirli, cassetti vuoti a pareti riverniciate. Anche il passaggio riservato – che avrebbe dovuto garantire l’eventuale fuga del boss – è chiuso. Manca soprattutto la cassaforte, quella dove – secondo i collaboratori di giustizia – Riina teneva tutti i documenti segreti: dai pizzini scambiati con gli altri capi di Cosa Nostra, fino agli appunti dei summit e, forse, quel “papello” che i sostenitori della trattativa ritengono sia il “corpo del reato” di quell’accordo che vi sarebbe stato tra pezzi di Stato e Cosa Nostra. Tutto, insomma, è stato debitamente ripulito.
C’è da rimarcare che, nel processo per la mancata perquisizione al covo di Riina, tanto Sergio De Caprio quanto il generale Mario Mori sono stati assolti pienamente. Dunque, nessuna condotta fuori legge vi fu da parte dei carabinieri, i quali da sempre sostennero l’idea di aver atteso per capire se arrivassero altri esponenti mafiosi da individuare, subito dopo l’arresto di Riina.
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Che fine ha fatto il “papello”? C’entra Messina Denaro?
Assodato che dal covo di via Bernini fu portato via tutto quanto, rimane da comprendere che fine abbia fatto una documentazione di tale portata. C’è chi sostiene che, in fondo, l’arresto di Riina sia stato “agevolato” da esponenti di Cosa Nostra vicini all’ala Provenzano, più inclini alla strategia “sommersa” che garantiva minore spargimento di sangue. E che quindi l’arresto di Riina sia stato funzionale a tale progetto. Sul punto, i giudici d’Appello di Palermo (che hanno assolto larga parte degli imputati), nella sentenza sul processo riguardante la “Trattativa Stato-mafia” affermano che la mancata perquisizione al covo di Riina potrebbe essere stato un atto simbolico, utile a dare un «segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo». Con ciò confermando l’idea che una parte di Cosa Nostra intendeva comunque dialogare con lo Stato, seppur non vi sia prova di un accordo preventivo che prevedesse l’arresto di “Totò u curtu” in cambio della mancata perquisizione del suo covo.
Sta di fatto che, a sentire le parole del pentito Nino Giuffré, uomo molto vicino a Provenzano, il “papello” potrebbe essere stato proprio in mezzo alle carte in possesso di Riina e fatte sparire. Che l’eventuale “papello” possa essere strumento di potere, ricatto e pressione è di tutta evidenza. Giuffré indica in Matteo Messina Denaro colui che ne sarebbe il detentore. Proprio quel Matteo Messina Denaro che è anche l’ultimo boss sanguinario di quella stagione ancora latitante. Ormai da 30 anni.