Diverse cicatrici sul suo giovane corpo, segni di una sofferenza che dura da sempre. La prova che a togliersi la vita ci ha provato più volte, anche di recente. Stavolta non ha usato una lama improvvisata, ma l’alcol. Se l’è versato addosso e s’è dato fuoco.

A salvarlo, la prontezza degli agenti della Polizia penitenziaria del carcere di Vibo Valentia e, soprattutto, il personale del Pronto Soccorso ed i medici del reparto di Chirurgia, Anestesia e Rianimazione dello Jazzolino di Vibo Valentia, che l’hanno curato, stabilizzato, intubato e preparato per il trasferimento nel Centro Grandi Ustionati del Cardarelli di Napoli. È molto grave, ma ce la farà, anche se le conseguenze saranno devastanti alla luce della gravità delle ferite lasciate dal fuoco.  

Protagonista e vittima di una vicenda che ripropone il tema dei suicidi nelle carceri e della cura dei detenuti affetti da patologie psichiatriche, un trentenne di origini magrebine, recluso nella media sicurezza per reati comuni. Una emergenza che da Nord a Sud viene denunciata, oltre che da settori della politica, anche dalle organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria e dalle associazioni. Solo nel 2021 sono stati 53 i suicidi consumati, su 130 morti totali nelle carceri italiane. Una lieve flessione rispetto al 2020 (62 suicidi e 152 morti).

Numeri comunque alti, troppo alti. Che nascondono drammi e, talvolta, anche responsabilità del sistema. Come quelle ravvisate dalla sezione civile della Corte d’Appello di Catanzaro che appena nello scorso agosto, con una sentenza storica, ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire la moglie ed i quattro figli di Salvatore Giofré, morto suicida nel 2008, a 50 anni, proprio nel carcere di Vibo Valentia.