«Conobbi Paolo Borsellino nel luglio del 1978. Avevo 28 anni e iniziavo il tirocinio come uditore giudiziario presso l'ufficio Istruzione di Palermo guidato da Rocco Chinnici. Fu un mese di lavoro intenso in cui imparai tantissimo. Paolo Borsellino era il mio giudice affidatario e fu dunque per me un maestro di vita oltre che di diritto». È un ricordo vivo e intenso quello che Ottavio Sferlazza conserva del giudice Paolo Borsellino, ucciso il 19 luglio 1992, quando un'autobomba esplose sotto casa della madre, in via D'Amelio a Palermo. Con lui morì la scorta composta dal capo Agostino Catalano e dagli agenti Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina e Claudio Traina. A quella terribile deflagrazione sopravvisse solo l'agente Antonino Vullo.

Il magistrato agrigentino Ottavio Sferlazza proprio accanto a Paolo Borsellino mosse i primi passi e a Reggio Calabria e poi a Palmi ha concluso la sua carriera, rispettivamente in qualità di procuratore aggiunto presso la Direzione Distrettuale Antimafia (dal 2009 al 2015 con la parentesi tra il 2012 e il 2013 in cui fu procuratore Capo facente funzioni) e di procuratore Capo (dal 2015 al 2020).

Il ricordo

«Il primo giorno in cui arrivai, Paolo Borsellino mi accompagnò nella stanza di Rocco Chinnici, all'epoca dirigente dell'ufficio Istruzione. Ricordo con particolare coinvolgimento quel momento. Dopo cinque anni il giudice Rocco Chinnici sarebbe stato ucciso da Cosa Nostra e io, solo alcuni anni dopo, avrei presieduto la corte di Assise di Caltanissetta che nel 1983 aveva giudicato mandanti ed esecutori proprio del delitto di via Federico Pipitone. Durante quel mese di lavoro al fianco di Paolo Borsellino, di lui ho apprezzato le doti umane oltre che professionali. Ricordo la sua determinazione. Quando interrogava le persone, anche in carcere, camminava e fumava: era il suo modo di restare concentrato nel porgere con fermezza le domande e nel cercare con tenacia la verità. Spesso mi recavo anche a casa sua per far visionare alcune sentenze che mi incaricava di stendere e rammento i figli Fiammetta, Lucia e Manfredi che erano solo dei bambini. Un ricordo indelebile è senza dubbio il nostro ultimo incontro. Andai alla camera ardente a Palermo dopo la morte di Giovanni Falcone. Ci abbracciamo a lungo e lì sentì tutto il suo dolore e tutto il suo strazio. Fu un abbraccio affettuoso e stretto. Ero in ferie quando poi si consumò la strage di via D'Amelio. Appena saputo, mi recai subito a Palermo e sul posto realizzai di avere abitato proprio in quella strada, in un palazzo vicino a quello in cui abitava la madre, quattordici anni prima quando facevo il tirocinio, quando avevo conosciuto Paolo e vissuto quel mese che mai dimenticherò», ha concluso l'ex procuratore Ottavio Sferlazza, dallo scorso anno in pensione.

19 luglio 1992

Paolo Borsellino se n'è andato con la consapevolezza di non potere completare il prezioso e necessario lavoro cominciato con il collega Giovanni Falcone, ucciso meno di due mesi prima la strage di Capaci del 23 maggio 1992 insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.

Solo sette mesi prima la fine del maxiprocesso di Palermo per crimini di mafia. Il processo penale più imponente di sempre, 460 imputati, istruito da Falcone e Borsellino nella prima metà degli anni Ottanta. Quel giudizio per delitti di mafia iniziò il 10 febbraio 1986 e terminò il 30 gennaio 1992, con la conferma in Cassazione di 19 ergastoli e di oltre 2600 anni complessivi di reclusione.

Solo sette giorni dopo – il 26 luglio 1992 - l'ultimo volo della giovane Rita Atria, non sopravvissuta all'omicidio di Paolo Borsellino di cui, dopo una vita di paura, era riuscita a fidarsi.

I processi e la verità incompleta

Dopo quattro processi, e forse un quinto all'orizzonte, decine di condanne anche all'ergastolo, quell'attentato di 29 anni fa ancora riserva dubbi, contraddizioni, depistaggi e persone senza volto che accanto a Cosa Nostra vollero quella strage. Anche questo delitto si annida nella controversa trattativa Stato - Mafia e lascia irrisolti misteri come quello della sua agenda rossa, mai più ritrovata e divenuta un simbolo di quanto ancora ci sia da fare per stanare questa e le tante, troppe verità ancora taciute e nascoste.

Il capitolo recente è stato scritto nel gennaio scorso quando la corte d’assise d’appello di Caltanissetta ha depositato le motivazioni della sentenza con cui sono state confermate le condanne all’ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino imputati per strage, e la condanna per calunnia a 10 anni dei falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci.