«Questa morte lascia un messaggio di speranza, di fede e di amore ma non di odio». Non c'è traccia di rancore nelle parole di Raffaella Sestito, sorella di Giuseppe. Il 60enne catanzarese spirato dopo due giorni d'agonia a causa della brutale aggressione avvenuta la mattina del 9 settembre al centro ippico Valle dei Mulini. È un dolore composto - ma non meno «straziante» - quello che ha lacerato ben due famiglie: alla morte di Giuseppe Sestito si è aggiunta a breve distanza quella di Vincenzo Marino, 68 enne anche lui al maneggio in quella mattinata di follia.

Una morte assurda

«È deleterio pensare che si possa morire o finire in una sala rianimazione per motivi che non riusciamo ancora a spiegarci». È una tragedia che ha scosso l'intera città, improvvisa quanto inspiegabile. Un raptus ha armato la mano del 28enne pakistano, oggi ristretto in carcere con l'accusa di duplice omicidio. «Inizialmente pensavo ad una caduta da cavallo - racconta la sorella - poi abbiamo appreso che questo pakistano aveva aggredito prima il signor Marino e successivamente mio fratello. Dai racconti che ci sono stati fatti, abbiamo capito che appena arrivato è stato aggredito. Successivamente questo ragazzo è dapprima tornato sul corpo del signor Marino e poi ha inveito contro altre persone».

La donazione degli organi

Una fatalità, Giuseppe Sestito quella mattina non sarebbe dovuto essere al centro ippico. Aveva finito il turno dal lavoro alle 7, un rapido saluto con lo sguardo la mattina del 9 settembre mentre la sorella arrivava a Fondazione Betania e lui andava via. L'ultimo ricordo, assieme a quello della sera precedente mentre Raffaella cucinava un risotto al tartufo e si chiacchierava del più e del meno: «È doloroso pensare che un familiare possa essere ucciso ma non potevamo discostarci dal suo percorso di vita su questa terra, per ciò che ha lasciato, per ciò che ha fatto: l'amore, la passione, la cura per gli altri. Non potevamo non offrire la possibilità ad altre persone di vivere attraverso i suoi organi. E quindi la decisione della figlia e di tutti noi familiari dell'espianto degli organi quella sera stessa».

Nessun odio

L'estremo gesto di amore per interrompere una spirale d'odio. E anche il veleno può diventare salvifico: «Nessuno di noi ha avuto una reazione di odio nonostante la brutalità dell'atto. Credo in una giustizia terrena - aggiunge ancora Raffaella Sestito - e credo in una giustizia divina. Noi siamo figli di Dio e dobbiamo attenerci a quegli insegnamenti: amare il prossimo a prescindere. Mio fratello era così e noi non possiamo discostarci da quello che era il suo pensiero: viveva per amore».

Un cratere nel cuore

È più difficile imparare a perdonare che abbandonarsi all'odio, senza che il dolore faccia meno male: «È come un cratere nel cuore, una ferita che sanguina» racconta ancora Raffaella mentre con sorriso sereno e con gli occhi che si illuminano di nuova luce sceglie con accuratezza le immagini per ricordare il fratello: «Come ricordarlo? Con il sorriso, sempre con una buona parola per tutti. Era anche il messaggio che aveva lasciato quella mattina agli operatori con cui lavorava: vogliamoci bene». E ancora nell'ultimo frammento della sua vita: il caffè acquistato per offrirlo a qualcuno ma rimasto a freddarsi nel vano dell'auto.