VIDEO | Sarebbe dovuta essere una delle vie d'accesso veloci alla Sila dal versante ionico. I lavori iniziati nel 2009 si sono fermati non prima di aver sventrato un territorio vergine. Oggi c'è degrado e abbandono e addirittura il sospetto che una parte del materiale estratto dallo scavo delle gallerie sia radioattivo
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Dieci anni e 48milioni di euro spesi solo per creare piloni di cemento armato e ferro, gallerie infinite nel cuore terra e colate di calcestruzzo in ogni dove. È questa la Sibari-Sila: una strada che avrebbe dovuto rappresentare una svolta nel sistema della mobilità della Calabria del Nord-Est. Una grande via di comunicazione per collegare, nelle premesse, l’Alto Jonio, la piana di Sibari e la Statale 106 al cuore dell’altopiano Silano, in appena venti minuti. Invece sono passati quasi vent’anni da quando la Provincia di Cosenza pensò quell’opera, la mise in cantiere per un importo di 21 milioni di euro e alla fine si è trovata a spenderne più del doppio per non realizzare un bel nulla e lasciando sul territorio, probabilmente, anche una bomba radioattiva. Almeno questo a sentire l’avvocato Adriano D’Amico, già consigliere comunale di San Demetrio Corone, il capoluogo della grande comunità arbereshe dell’area ionica-sibarita, che della Sibari-Sila, di «quell’opera abominevole» ne ha fatto una personale battaglia contro «la mala politica».
«Quel cobalto estratto dalle gallerie è radioattivo»
Un’opera abominevole, la Sibari-Sila, così la definisce D’Amico perché è incredibile come si siano spesi così tanti soldi, come si sia operato con così tanta fretta e superficialità e senza prevedere costi tantomeno imprevisti. Già, perché di imprevisti ce ne sono stati. Come i problemi che sono venuti fuori con la trivellazione della quarta galleria, l’ultima del tracciato prima del definitivo fermo. Durante l’opera di scavo dell’ultimo tunnel, un buco nero di circa 500 metri, sono stati portati fuori, all’aria aperta, centinaia di metri cubi di rocce contenenti cobalto. «Un minerale – dice D’Amico – che finché sta sotto terra nulla questio. Ma che se viene estratto e non accuratamente trattato e isolato, può diventare altamente tossico per la sua radioattività». Non siamo in grado di confermare le nozioni scientifiche di D’Amico ma resta il fatto che oggi quei massi di colore giallastro che vanno sul blu giacciono inermi sul dorso di una delle colline attraversate dal tracciato, incustodite e alla mercé di tutti. E con loro anche decine e decine di ferri di carpenteria arrugginiti, quintali di plastica e numerose cisterne in disuso, residuati di un cantiere che non c’è più e che levando le tende ha lasciato desolazione e degrado, proprio li in un angolo di Calabria che fino a dieci anni fa era vergine ed incontaminato.
«Una strada che seppure venisse completata sarebbe inutile»
Ma in attesa che gli organi competenti accertino un eventuale danno ambientale, oltre a quello paesaggistico ormai acclarato e lampante, resta lo scandalo dei soldi spesi per realizzare le opere strutturali di poco più di due chilometri di tracciato. 48milioni di euro, dicevamo, "solo" per realizzare gallerie, sbancare colline, fare palizzate e costruire gli scheletri dei viadotti. «Ammesso che venissero completati questi due chilometri di strada – scandisce ancora D’Amico – con ulteriore sborso di soldi pubblici per completare la carreggiata, a cosa servirebbe questa strada così esosa? A Collegare Cacossa e Calamia, due contrade di San Demetrio Corone, per altro semi disabitate».
E infatti, altra particolarità di questa “opera” è che i lavori del tracciato nel 2009 iniziarono né a valle (nella piana di Sibari) né a monte (nella zona di Acri) bensì nel centro. Quindi se non ci fossero più risorse per completare l’opera – cosa molto probabile, considerata la generale penuria di risorse degli enti pubblici e delle Provincie in particolare – domani, quel territorio si ritroverebbe sventrato perennemente da un biscione di cemento e ferro.