«Sentire il rumore metallico delle chiavi e delle porte di ferro che si chiudono alle tue spalle ti fa avvertire un senso di distacco dal mondo reale». È uno dei passaggi tratti dal libro-intervista del giornalista Franco Attanasio “Io sono libero” con l’ex governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, pubblicati sull’edizione odierna de “Il Giornale”. Il già presidente della Regione ha raccontato la sua vita in regime di detenzione dopo una condanna a 4 anni e sette mesi per falso in bilancio quando era sindaco di Reggio Calabria.  

«Il carcere, una sconfitta»

«Entrando in questo mondo ho subito ricordato le mie visite al cimitero – spiega l’ex primo cittadino - Da vivo camminavo tra i morti. Ora invece mi sentivo seppellito senza essere morto, murato ma ancora vivo. Il carcere è un’esperienza di vita non programmata, almeno nel mio caso, assolutamente negativa. Dopo tante battaglie vinte con lealtà e dignità, questa è stata la sconfitta più amara. Calunnie, denigrazioni, un processo mediatico costante, anche dopo la sentenza di primo grado. Un accanimento infinito. Ho avuto la sensazione, poi divenuta certezza, che qualcuno da tempo stesse progettando la mia eliminazione politica. Il sistema temeva il mio consenso popolare».

La sentenza 

Il momento più angosciante Scopelliti spiega di averlo vissuto la sera prima, «quando mai avrei immaginato, da padre, di dover salutare mia figlia per andare in carcere. Ricordo che lei, elegantissima, scendendo le scale di casa nostra per recarsi ad una festa di compleanno, mi disse: «Papà sto uscendo, vieni a prendermi più tardi?». La fermai e le dissi di aspettare perché avrei dovuto parlarle. Le spiegai che gli avvocati per telefono mi avevano anticipato l’esito della sentenza definitiva della Cassazione. Non dimenticherò mai il suo sguardo, il suo pianto, le sue braccia raccolte sul petto. Ci chiudemmo in una stanza. Parlammo a lungo di come affrontare il distacco. Sapevo che la separazione sarebbe stata lacerante».

La famiglia e gli affetti

Quindi un passaggio sulla famiglia. «Cosa mi manca? I miei affetti più intimi, ovviamente. Mia moglie, le mie bambine, mia madre novantenne che, ad oggi, ancora non sa che mi trovo in carcere. Dapprima le hanno detto che ero fuori per impegni politici, poi all’estero per ragioni di lavoro. Per lei, vista l’età, sarebbe stato un trauma insuperabile, troppo vicino alla perdita di mio padre, con cui ha condiviso tutta la sua vita. Ci ha creduto? Non ne son convinto, ma preferisco che abbia il dubbio anziché la certezza di una verità che per lei sarebbe stata insopportabile. Attendo di poter dire a mia madre la verità, ma solo quando terrò strette le sue mani nelle mie e potrò asciugarle le lacrime con i miei baci, proprio come lei faceva con me un tempo».

«Una delle cose che mi rimarrà più impressa di questi momenti difficili e di assordante silenzio personale – conclude l’ex governatore - è lo sguardo di Barbara nell’istante in cui le ho comunicato la notizia della condanna. È stata lei a svegliarmi il 5 aprile 2018. Erano le 6:45. Lei era solita farmi trovare una frase di Platone, il suo filosofo preferito, ogni volta che dovevano affrontare una situazione importante. La scriveva su un pezzetto di carta, lasciandola in un punto della casa dove avrei certamente posato gli occhi o le mani, l’aveva fatto anche quel giorno, l’ultimo prima della detenzione. “Chi commette un’ingiustizia è sempre più infelice di colui che la subisce” recitava il primo. “Nessun male può accadere ad un uomo giusto, sia durante la vita che dopo la morte” ammoniva l’altro».

 

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