È possibile che le istituzioni calabresi lascino nel limbo un'intera famiglia scampata al dramma della dittatura per colpa di un apostrofo? È possibile che proprio mentre la politica discute animatamente sul tema dell'immigrazione, una famiglia giunta in Italia con la voglia e la speranza di ricominciare nel segno della legalità, debba attendere dei mesi per vedersi riconosciuta la cittadinanza pur avendone pieno diritto? A quanto pare sì e la testimonianza arriva direttamente da una coppia venezuelana formata da Carolina e José De Cesare, arrivati tre anni fa Scalea per lasciarsi alle spalle i disastri del totalitarismo di Hugo Chávez prima e di Nicolás Maduro poi.

«La dittatura ci ha tolto tutto»

Prima di addentrarci nelle tortuose vie delle inefficienze e della burocrazia calabrese, è necessario raccontare la storia dal principio. Sono i primi anni 2000, Carolina e Josè De Cesare sono marito e moglie, hanno 3 figli e vivono in Venezuela, entrambi sono due stimati architetti. In particolare, lui realizza anche grandi opere e collabora a stretto contatto con il governo. Ma con il passare degli anni la situazione politica e sociale del Venezuela diventa insostenibile. In poco tempo la dittatura annulla le esistenze dei cittadini venezuelani. La libertà diventa solo un lontano ricordo, le persone camminano con le armi in tasca per difendersi e cibo e medicine cominciano a scarseggiare. Con l'arrivo del presidente Maduro, poi, Carolina e Josè perdono ogni bene.

L'arrivo in Europa

I componenti della famiglia De Cesare cominciano ad uscire dal Paese uno alla volta, senza destare troppi sospetti, prima che sia troppo tardi. Prima va via Nelson, il figlio maggiore, poi Josè e tutti gli altri. Si ritroveranno qualche tempo dopo a Bruxelles, dopo aver venduto un appezzamento di terreno di grande valore, da cui, per colpa della svalutazione monetaria, si è riusciti a ricavare soltanto il costo dei biglietti aerei. Qui la famiglia De Cesare deve ricominciare tutto da capo, svolgendo diversi lavori per riuscire ad andare avanti. L'armonia non manca e nella città cosmopolita Carolina dà alla luce il quarto figlio. L'arrivo del nuovo pargolo, però, costringe Carolina e José a cercare un posto dove la vita sia meno cara. Nei pressi del consolato italiano si imbattono in una donna, che consiglia loro di trasferirsi a Scalea. Lì, nella profonda Calabria, si sopravvive con poco. José rimane sorpreso, perché quel posto lo conosce praticamente da sempre. Suo nonno, Antonio Biase De Cesare, cento anni prima, era partito proprio da Scalea alla volta del Venezuela in cerca di fortuna.

La trascrizione sbagliata del cognome

Una volta giunto sud America, il sarto di Scalea era stato quindi registrato regolarmente, ma l'incaricato aveva erroneamente fatto sparire una lettera dal cognome sostituendola con un apostrofo, facendolo diventare "D' Cesare". Ancora oggi, sulla carta di identità del nipote José, figlio del figlio, è scritto allo stesso modo.

La cittadinanza negata

A Scalea la famiglia De Cesare incontra il primo grande ostacolo: la lingua italiana. Ma grazie all'aiuto di tante persone del posto, che l'ha accolta con amore, Carolina, José e i loro quattro figli riprendono in mano la loro vita. Pesa, però, la mancanza di un lavoro stabile. I due architetti vorrebbero anche equiparare la loro laurea, in modo da riprendere anche le vecchie care abitudini professionali. Ma senza la cittadinanza italiana ciò è impossibile. Documenti alla mano, José si reca in Comune per rivendicare il diritto allo "ius sanguinis", l'espressione giuridica che indica l'acquisizione della cittadinanza grazie a un genitore o un ascendente di quella data nazionalità. Il rapporto di parentela con il nonno è chiaro e certificato dalle carte, su questo i funzionari comunali non hanno alcun dubbio. Le perplessità, invece, si manifestano quando si trovano a dover fronteggiare la questione burocratica dell'apostrofo al posto della lettera "e", perché negli archivi italiani Antonio Biase è ancora registrato come "De Cesare". Pertanto, i dipendenti comunali dicono a José che non è competenza loro risolvere il caso e quindi deve rivolgersi ad altri uffici. Di conseguenza, José affida la questione a un giudice del tribunale di Paola, il quale, a sua volta, prova a chiedere chiarimenti al consolato venezuelano. Ma la risposta non arriva e da quasi sei mesi la famiglia De Cesare vive letteralmente nel limbo. Niente contratti di lavoro, niente equipollenza della laurea, nessun diritto politico e civile.

«È dura andare avanti»

Per la famiglia De Cesare andare avanti in queste condizioni è sempre più difficile. «Non è semplice convivere giorno per giorno senza avere una cittadinanza - dice José -. Sulla carta di identità risulto a tutti gli effetti un cittadino venezuelano, ma che diritti abbiano noi venezuelani oggi? Nessuno, abbiamo perso tutto. Qui in Italia invece abbiamo ricominciato a vivere e nelle mie vene scorre sangue italiano. La cittadinanza in questo momento è nel mio cuore e nella mia testa, altrimenti non riuscirei a mandare avanti la mia famiglia».

L'appello del figlio Nelson

Il dramma della famiglia De Cesare si consuma proprio nei tempi in cui l'immigrazione è un tema che divide la nazione e si presta, malauguratamente, anche ai più disparati slogan partitici. A tal proposito, Nelson, figlio maggiore della coppia, ha qualcosa da dire: «Alla politica direi di essere più razionale - afferma il 23enne -. Non tutte le persone sono uguali, ci sono persone buone e persone cattive, così anche tra gli immigrati. Ma non si può giudicare tutti allo stesso modo, bisognerebbe guardare alla singola persona e non fare dell'immigrazione tutto un fascio». Nelson parla fluentemente 5 lingue e, nonostante tutto, nel suo futuro vede ancora l'Italia. «Qui mi trovo benissimo, è un Paese accogliente. Amo molto la sua storia, l'ho imparata studiando sui libri ed essere qui è come viverla sulla propria pelle. Credo che resterò».