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Assolti per non aver commesso il fatto. Così la Corte d’Appello ha deciso per Roberto Franco e suo figlio Francesco, imputati dei reati concorso in falso e soppressione, occultamento e distruzione di atti veri, in concorso con Francesco Chilà, sottufficiale della Guardia costiera. Secondo l’accusa avrebbero sottratto, distrutto o occultato, in tutto o in parte, le copie di un verbale di accertamento e contestazione il 6 luglio del 2014 a Scilla.
L’origine del processo
Il processo nei confronti di Roberto e Francesco Franco (difesi rispettivamente dall’avvocato Alfredo Foti del foro di Roma e dall’avvocato Giuseppe Mazzetti del foro di Reggio Calabria) è una costola di "Sistema Reggio" e nasce dall’attività di intercettazione avvita per accertare cosa accadde prima dei due attentati posti in essere contro il bar "Malavenda" nei primi mesi del 2014. E nel corso dell’intensa attività di intercettazione, gli inquirenti ebbero modo di notare una vicenda riguardante un controllo effettuato dalla guardia costiera di Reggio Calabria.
La prima conversazione "incriminata" è quella dell’otto luglio in cui Roberto Franco parla con il figlio per chiedere il nominativo dell’appartenente alla capitaneria che lo aveva fermato. Durante la chiamata, Francesco Franco chiede al padre se "Il comandante c’è?", ricevendo conferma. Costui viene identificato nel maresciallo Francesco Chilà, all’epoca dei fatti in servizio alla capitaneria di Porto di Reggio Calabria. Fra lui e Roberto Chilà vengono poi registrate diverse chiamate di carattere conviviale ed uscite nei locali della movida reggina.
Dai successivi accertamenti viene fuori come la contestazione fatta a Francesco Franco era quella di guida di acquascooter senza casco di protezione. Il teste di accusa spiega come il blocchetto dei verbali è composto da quattro esemplari, ma di quelle che dovevano rimanere all’ufficio, nessuna copia era stata trovata se non la matrice inserita nel blocchetto che arrecava sul retro la dicitura "errata compilazione". Lo stesso teste riferisce ai magistrati come, anche in caso di errore, si sarebbe dovuto trovare altro esemplare e che in ogni caso risultava il rifiuto del destinatario e quindi impossibile da chiudere con la dicitura “errata compilazione” da apporre prima della chiusura del verbale.
Tutti elementi che, insieme alla testimonianza dei testi d’accusa in aula, hanno fatto scattare la condanna in primo grado a tre anni e sei mesi di reclusione. Per il maresciallo Chilà, invece, già in primo grado il gup aveva disposto, con rito abbreviato, l’assoluzione dell’imputato.
Il secondo grado
Una decisione appellata dai legali dei Franco. Proprio l’avvocato di Roberto Franco, Alfredo Foti, nei motivi d’appello scriveva come «la possibile imputazione a titolo di concorso morale nel reato da altri perpetrato richiede, ad substantiam, la sussistenza di precisi e tassativi elementi. In primis la prova della realizzazione di una condotta volontaria di stimolo e/o rafforzamento del proposito criminoso altrui, con piena consapevolezza della condotta illecita altrui e della pacifica volontà criminosa di realizzazione dell’evento illecito». E poi anche «la prova della rilevanza causale del contributo morale fornito dal concorrente». Elementi che, a giudizio della difesa, non erano sussistenti nella sentenza di primo grado e che, anzi, unitamente ad altri (come le intercettazioni e le dichiarazioni degli imputati) vadano in senso opposto. Quanto ai documenti, «il verbale non ha seguito il normale iter procedurale» e infatti «lo stesso non è stato sicuramente né soppresso e né distrutto, ma neppure concretamente occultato». Una tesi che i giudici hanno sposato assolvendo gli imputati per non aver commesso il fatto.
Consolato Minniti