Il più importante collaboratore di giustizia italiano attualmente in vita appare di spalle, giacca blu e berretto grigio, sui ventiquattro monitor che scendono dal soffitto dell’aula bunker di Lamezia Terme. Collegato in videoconferenza dalla località riservata, l’uomo che svelò le trame più crudeli e perverse dello stragismo di Cosa nostra, dagli attentati di Capaci e via D’Amelio al supplizio del piccolo Giuseppe Di Matteo, depone al maxiprocesso Rinascita Scott.

Qui non c’è la mafia siciliana, è il processo ad una ’ndrangheta d’élite che – anche secondo i pm della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro – coi siciliani ebbe un dialogo costante e profondo in una delle fasi più delicate del Paese, tra la Prima e la Seconda Repubblica. Ed uno degli interlocutori principali sarebbe stato lui, Luigi Mancuso, il Supremo, principale imputato di Rinascita Scott, contrario allo stragismo – hanno riferito nelle precedenti udienze altri collaboratori di giustizia – ma padrone di casa, quando i capi delle grandi famiglie calabresi ricevettero, nel Vibonese, gli emissari di Totò Riina.

La mattanza, il pentimento

Spatuzza, ‘u Tignusu, l’uomo che rubò la Fiat 126 carica di tritolo che uccise il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, l’assassino di don Pino Puglisi, il rapitore di un altro innocente poi condotto al massacro, appunto il figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, il carnefice di circa quaranta mafiosi per conto dei Graviano di Brancaccio, è flemmatico ma sicuro nel suo eloquio dalla caratteristica cadenza palermitana. Finito in arresto nel 1997, quando Cosa nostra si calò come un giunco davanti alla piena dello Stato, iniziò a collaborare sin dal 2008 e fu un movimento tellurico: la verità su via D’Amelio, dopo anni di menzogne ed ignobili depistaggi. Poi sulle bombe del ’93 nel Continente: Milano, Firenze, Roma. I legami tra mafia, imprenditori, politici. I rapporti, presunti, tra i Graviano e Dell’Utri e Berlusconi. Oggi, dopo i processi su attentati e massacri di inizio anni ’90, sulla trattativa Stato-mafia, sul patto stragista tra siciliani e calabresi, depone a Rinascita Scott.

Il prequel con Fiume

Spatuzza depone subito dopo il controesame, burrascoso e confusionario, del pentito reggino Nino Fiume, che – sollecitato dalle difese – prova chiarire alcuni aspetti emersi in sede di esame sulla storia del clan De Stefano e sulla carica di Crimine passata, dopo l’omicidio di Paolo De Stefano (1985), prima a Domenico Tegano (deceduto nel 1991), poi a Pasquale Condello, fino alla pace benedetta da Antonio Nirta e Mico Alvaro. In seguito il Crimine fu conferito, nel 2001, a Peppe De Stefano, figlio dello stesso don Paolo. Quindi domande e risposte, quasi incomprensibili da parte dello stesso Fiume, sul conferimento della dote della Santa e sul «chiamarsi il posto» degli ‘ndranghetisti in carcere. «C’erano regole di vita una volta nella ‘ndrangheta – ha detto Fiume – che col tempo, però, sono state enfatizzate fino a diventare qualcosa di folcloristico».

Il superpentito

Ben più lineare, anche se relativamente breve, il narrato di Gaspare Spatuzza. Preliminarmente, rispondendo al pm Anna Maria Frustaci, spiega cosa significa essere stati «combinati». «Sono stato combinato, quindi fatto uomo d’onore, giurando fedeltà alla famiglia di appartenenza – racconta – quando fui nominato capo mandamento, tra l’ottobre e il novembre 1995, dopo che fu arrestato Antonino Mangano. Prima non ero stato combinato, ma facevo parte comunque della famiglia ed avevo dei ruoli fondamentali».  Dopo l’arresto, nel ‘97, il 26 luglio del 2008, iniziò a collaborare con la giustizia, avendo incassato condanne definitive per le stragi di Roma e Firenze e per l’omicidio di don Puglisi. «Il mio è stato un percorso morale e spirituale – continua – Già nel 2001, senza collaborare né dissociarmi formalmente, presi comunque le distanze della famiglia. Iniziai ad affrontare il carcere in solitudine. Intrapresi in seguito la collaborazione con la giustizia, ma non ero stato mai indagato per Capaci e via D’Amelio. E mi autoaccusai perché era giusto così, perché fino ad allora erano stati condannati erroneamente all’ergastolo degli innocenti. Poi ci sono stati i processi e ho riportato condanne definitive per queste stragi. Alla fine hanno prevalso la verità e la giustizia. C’erano anche dei passaggi rimasti nell’ombra per gli attentati di Milano e Firenze e io ho reso dichiarazioni anche su questo, malgrado fossi già stato condannato per queste stragi».

L’asse Sicilia-Calabria

Quindi il nocciolo: i rapporti Cosa Nostra-‘ndrangheta. «Negli anni ’80 i Graviano ospitarono i fratelli Notargiacomo al villaggio Euromare che era di proprietà dei Graviano e di Tullio Cannella, oggi collaboratore di giustizia  – spiega –. I Notargiacomo erano amici di Antonino Marchese, cognato di Leoluca Bagarella. Ricordo che uno di questi fratelli era stato ferito, perché coinvolti in una faida in Calabria». E ancora: «Durante la detenzione a Tolmezzo, con noi c’era Mommo Molé, persona stimatissima da Mariano Agate e dai fratelli Graviano. Eravamo, noi siciliani, coinvolti nel processo Golden Market. Mi dissero di ricusare il presidente della Corte d’Assise di Palermo all’ultima udienza – continua Spatuzza – Io sono stato stralciato. Molti così furono condannati, ma io fui successivamente assolto per gli omicidi. Quando arrivammo in Cassazione, ci arrivammo con due processi, io assolto e altri invece condannati».

Gli “amici calabresi”

In relazione allo sviluppo del processo Golden Market, Spatuzza aggiunge: «Il giorno successivo al nostro arrivo a Tolmezzo, Giuseppe Graviano ci disse che aveva dato due botte di 500 milioni di vecchie lire a Mariano Agate per aggiustare un processo grazie agli “amici calabresi” ed il riferimento era la cosca Piromalli-Molé, con la quale c’era un rispetto profondo». Sugli altri rapporti tra siciliani e calabresi, invece: «Ho avuto un traffico di hashish e armi con i Nirta, per conto della famiglia mafiosa di Brancaccio. Poi ho conosciuto nel carcere di Ascoli Piceno Pasquale Tegano, Nicola Arena e Franco Coco Trovato. Mariano Agate aveva ottimi rapporti anche con Tegano e Coco Trovato».

E ancora: «A Tolmezzo contestai a Filippo Graviano che napoletani e calabresi si lamentavano che se c’era il 41 bis la colpa era dei palermitani. Graviano mi rispose “Questi che si lamentano dovrebbero prima parlare con i loro padri”. A gennaio del ’94, quando eravamo a Roma per l’attentato all’Olimpico, mentre si aspettava l’input di Giuseppe Graviano, al bar Doney lui mi disse che i calabresi si erano mossi, alludendo all’attentato fatto in Calabria contro i carabinieri, e quindi si poteva fare la strage allo stadio che poi è fallita. L’esigenza di fare presto a Roma, ci fece accantonare l’idea di ammazzare Contorno, che noi sapevamo dove fosse. Dovevamo fare un attentato pure a Napoli. Da quello che mi disse Graviano, compresi che c’era sinergia tra siciliani e calabresi nelle stragi, per questo mi disse che napoletani e calabresi dovevano parlare con i loro padri prima di lamentarsi, perché pure loro erano coinvolti nelle stragi».