Lo storico collaboratore di giustizia ha ripercorso dinanzi al Tribunale di Vibo rapporti e alleanze dei Mancuso con gli altri clan. Dai contrasti con i Vallelunga di Serra sino al legame con i Prostamo ed i Galati
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È stata la volta del collaboratore di giustizia Michele Iannello, 53 anni, di San Giovanni di Mileto, nel maxi-processo Rinascita-Scott che si sta svolgendo nell’aula bunker del polo industriale di Lamezia Terme dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia.
Rispondendo alle domande del pm della Dda di Catanzaro, Antonio De Bernardo, Michele Iannello – condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio del piccolo Nicolas Green (fatto di sangue avvenuto sull’autostrada nel settembre 1994 mentre viaggiava in auto con i genitori) – ha ripercorso il suo cammino criminale chiamando in causa diversi personaggi. A distanza di anni dall’avvio della collaborazione (1995), l’ex “sgarrista” di San Giovanni di Mileto è stato ripreso a verbale il 21 giugno del 2018 dai magistrati della Dda di Catanzaro.
“Ero organico alla ‘ndrangheta e facevo parte di un gruppo operante a San Giovanni di Mileto composto dai Prostamo, dai Pititto e Iannello. Ho iniziato a collaborare – ha dichiarato oggi Iannello – nel gennaio del 1995. In principio il gruppo era capeggiato da Enrico Zupo a cui successivamente è subentrato Giuseppe Prostamo ed il fratello Nazzareno Prostamo. Zupo Enrico ha poi avuto dei contrasti con Peppe Mancuso ed è stato eliminato.
Al suo posto hanno preso il sopravvento i fratelli Prostamo, in ottimi rapporti con Mancuso Antonio e Giuseppe. All’epoca a San Giovanni di Mileto era costituita una ‘ndrina distaccata dei Mancuso ed in particolare di Mancuso Giuseppe e Mancuso Luigi. Nel periodo in questione ovvero dal 1986 in poi, i Mancuso di Limbadi – ha raccontato ancora Michele Iannello – rappresentavano i vertici della ‘ndrangheta vibonese e a Limbadi era presente un locale di ‘ndrangheta riconosciuto che rispondeva direttamente a San Luca. In realtà i Mancuso erano i capi dell’intera area del Vibonese e tutte le strutture di ndrangheta ivi presenti facevano riferimento a loro, come fossero una “casa madre” per tutta la zona.