I contrasti fra la nuova ‘ndrina di Vibo Valentia dei Camillò-Pardea-Macrì e i Barbieri di Pannaconi di Cessaniti, nipoti del boss di Zungri Peppone Accorinti, al centro della deposizione odierna del collaboratore di giustizia Michele Camillò nel maxiprocesso Rinascita Scott. Nel corso dell’esame è spuntato fuori anche il nome di Francesco Barbieri, il giovane arrestato martedì con l’accusa di aver aperto il fuoco sabato notte a Vibo contro Domenico Catania, 32 anni, detto “Pallina”, rimasto ferito ad una spalla. Ed anche il nominativo di quest’ultimo è stato al centro dell’esame del collaboratore.

Il comando a Zungri e i contrasti con i vibonesi

«Bartolomeo Arena e Mommo Macrì mi dissero che a Zungri comandavano Peppone Accorinti ed i fratelli. Mimmo Cichello in carcere mi disse poi che per qualsiasi cosa succedeva a Zungri bisognava informare Giuseppe Accorinti che comandava insieme al fratello Pietro Accorinti. Bartolomeo Arena non si fidava di Accorinti perché lo riteneva un sanguinario che era solito uccidere le persone che si portava a mangiare». 

«Mommo Macrì – ha dichiarato Michele Camillò – era invece molto amico di Peppone Accorinti. Dei primi contrasti con gli Accorinti mi raccontò Francesco Antonio Pardea. Michelangelo Barbieri di Pannaconi, nipote di Giuseppe Accorinti, aveva fatto una piantagione di marijuana insieme a Luciano Macrì di Vibo Marina ed erano sorti dei dissidi fra i due. Da qui un incontro al campo sportivo di Vibo Marina fra Giuseppe Accorinti, Domenico Pardea di Pizzo e Luciano Macrì. In quell’occasione Giuseppe Accorinti – ha raccontato ancora il collaboratore – portò con sé una corda con la quale voleva impiccare Luciano Macrì oppure Domenico Pardea. Proprio Pardea, sebbene armato, invece di tirare fuori la pistola e sparare contro Accorinti, si tirò indietro.

La rissa a Vibo e lo scontro

Michele Camillò ha quindi ripercorso le liti e le risse avvenute a Vibo Valentia fra il suo gruppo ed i Barbieri di Pannaconi di Cessaniti.

«Mi trovavo con mio nipote Domenico Camillò in un locale di Vibo quando mio nipote venne chiamato sul posto da Peppe Barbieri, fratello di Michelangelo. A mio nipote alzarono le mani ed in sua difesa siamo intervenuti io, Luigi Federici, Giuseppe Suriano. Michelangelo Barbieri mi tirò anche uno schiaffo, poi ci lanciò anche delle bottiglie e il bidone della spazzatura contro dicendo pure che se ne fregava anche di Mommo Macrì e non aveva paura di nessuno. Ci siamo così recati a casa di Bartolomeo Arena in piena notte e lui ci disse che non era il caso di reagire subito perché sicuramente le telecamere ci avevano ripreso. Il giorno dopo, siamo a gennaio 2018, ci ritroviamo al bar con mio fratello Giuseppe Camillò, Francesco Antonio Pardea, Luigi Federici, Mommo Macrì e Michele Dominello. Mommo Macrì voleva fare un’azione contro Michelangelo Barbieri, nipote di Peppone Accorinti, e pensò così di punire tale Crudo, un amico di Barbieri che abitava a Vena di Ionadi, il quale aveva partecipato alla rissa».

La “spedizione” contro Crudo

«L’arma per sparare contro Crudo è stata comparata da Luigi Vitrò. Andarono a ritirarla mio fratello Giuseppe e Francesco Antonio Pardea. Luigi, detto Gino, Vitrò, è legato al nostro gruppo ed era uno che trafficava armi con Vincenzo Fiarè di San Gregorio d’Ippona, quello che lavora all’acquedotto della Sorical. Gino Vitrò ha un negozio di telefonia al centro commerciale. Andarono a ritirare l’arma lunga – ha affermato Michele Camillò – mio fratello Giuseppe Camillò e Francesco Antonio Pardea. Mommo Macrì è invece andato a chiamare Vincenzo Tassone, un gommista di Vibo legato anche a Morelli e Francesco Antonio Pardea».

«Tassone teneva nel suo garage una moto di Mommo Macrì rubata e che veniva usata per fare i danneggiamenti. A prendere la moto è stato Luigi Federici che si è messo il casco ed è partito dal garage. Io invece ero in macchina con un fucile in mano e con me nella stessa auto c’erano Michele Manco e Bartolomeo Arena. Sono sceso dall’auto – ha ricordato Camillò – e sono salito sulla moto guidata da Federici. Siamo arrivati nei pressi dell’abitazione di Crudo e gli ho sparato l’auto e la colonna della casa. Quindi siamo scappati e siamo andati a bruciare la moto, aspettando che passassero con la macchina a prenderci mio fratello Giuseppe Camillò e Francesco Antonio Pardea. Con l’auto siamo usciti ad un incrocio dove a destra si rientra a Vibo ed a sinistra si scende verso Triparni. Bisognava pagare il fucile a Gino Vitrò e così per non fare brutta figura con lui, io e mio nipote Domenico Camillò abbiamo messo 600 euro a testa». 

«Il fucile è stato poi nascosto a Bivona a casa di Vincenzo Pugliese Carchedi, un vecchio ‘ndranghetista che era il nonno di Bartolomeo Arena. È stato lo stesso Bartolomeo Arena – ha aggiunto Camillò – a portare il fucile, insieme a Michele Manco, a casa del nonno che naturalmente ne era al corrente. Il fucile, che avevo intenzione di vendere, venne poi portato in una cantina delle case popolari a Vibo che stanno nei pressi della Questura. Mommo Macrì sosteneva che se i fratelli Barbieri di Pannaconi fossero tornati a Vibo bisognava pestarli e lasciarli mezzi morti. Iniziarono così delle ronde notturne per vedere se i Barbieri erano risaliti a Vibo nei locali. Queste ronde le facevano Luigi Federici, Francesco Vonazzo e Michele Macrì».

La pace e la presenza di Francesco Barbieri a Vibo

Si arriva così alla tregua. Secondo il racconto di Michele Camillò, Giuseppe Barbieri – fratello di Michelangelo – contattò via facebook Mommo Macrì dicendogli che Peppone Accorinti voleva sistemare le cose. Accadde così che Francesco De Luca di San Gregorio d’Ippona, detto Ciccio Coniglio, portò il messaggio di Peppone Accorinti a Saverio Razionale il quale inviò al nostro gruppo un’imbasciata con Andrea Prestanicola che si rivolse a sua volta ad Antonio Macrì e da lì anche questo messaggio venne recapitato a Mommo Macrì e la cosa finì lì. 

«Nei fine settimana – ha dichiarato il collaboratore – salì così tranquillamente a Vibo Valentia Francesco Barbieri, fratello di Michelangelo e Giuseppe».

Si tratta dello stesso ragazzo arrestato martedì per la sparatoria a Vibo nella quale rimase ferito il 32enne Domenico Catania. Su quest’ultimo, detto “Pallina”, il collaboratore di giustizia ha affermato che si tratta di «una persona pienamente a disposizione del gruppo Camillò-Pardea-Macrì ed aveva partecipato con mio nipote Domenico Camillò alla sparatoria contro Carmelo Pugliese, detto Cassarola. Domenico Catania – ha spiegato poi Camillò – è stato l’autore dell’incendio dell’auto all’allora vicesindaco di Vibo, Salvatore Bulzomì. Con lui ad incendiare l’auto c’era anche Michele Manco, genero di Domenico Rubino. 

«Domenico Catania, su mandato di Bartolomeo Arena, è stato anche mandato a sparare contro Loris Palmisano. Con lui c’era anche Antonio Macrì, un ragazzo che aveva un centro scommesse vicino piazza Municipio a Vibo. Domenico Catania e Antonio Macrì si erano già preparati con le armi per andare a sparare contro Palmisano, ma alla fine le armi vennero buttate perché passo da lì la polizia. Domenico Catania è nipote di Totò Macrì, in quanto figlio della sorella. È intimo amico di mio nipote Domenico Camillò e prendeva ordini sia da suo zio Totò Macrì che da Francesco Antonio Pardea. Domenico Catania frequentava anche Daniele La Grotteria e Michele Macrì. Poi però si è allontanato – ha concluso Michele Camillò – perché si è fidanzato con la nipote di Francesco Michelino Patania, detto Ciccio Bello, imparentato con i Pugliese, detti Cassarola».
Domenico Catania è imputato nel maxiprocesso Rinascita Scott per il tentato omicidio di Carmelo Pugliese.