«Francesco Antonio Pardea è colui che più di ogni altro porta avanti il nome della sua famiglia, quella dei Pardea Ranisi. Lui intende riportare la stessa famiglia al potere che aveva un tempo. È colui che voleva riprendersi Vibo ad ogni costo. Io lo conosco da quando era bambino, la mamma è una brava donna che gli ha insegnato a parlare in italiano e ad essere educato. Il problema, però, è che lui è cresciuto col nonno, Rosario Pardea, che l’ha allevato a pane vendetta. E così è cresciuto con il pallino di uccidere Rosario Pugliese alias Cassarola e Domenico Piromalli».

Il riconoscimento

Bartolomeo Arena, collaboratore di giustizia, riprende la sua deposizione al maxiprocesso Rinascita Scott e riconosce il suo ex grande amico e sodale nell’effige fotografica mostratagli dal pm Anna Maria Frustaci. «Lui è stato a lungo in carcere, dove è molto più semplice prendere delle doti – continua Arena – La dote attuale di Francesco Antonio Pardea è quella della Stella. Fu rimpiazzato nei primi anni 2000 e faceva parte del gruppo di Andrea Mantella. I nostri rapporti criminali iniziarono dopo la sua ultima scarcerazione, nel 2015».

Il buon ordine e i Crotonesi

Pardea, secondo Arena, non avrebbe fatto parte del «buon ordine» mafioso costituito a Vibo Valentia, costituito tra i Pardea-Ranisi ed i Lo Bianco-Barba: «Non l’aveva digerita bene e, appena uscito dal carcere, se la prese con me – spiega il teste –. Lui ci mandò, quando era detenuto a Siano, una imbasciata attraverso cui ci diede indicazioni per avvicinarci ad Emilio Bartolotta, che a Pardea aveva dato doti e l’aveva avvicinato ai Grande Aracri di Cutro, in particolare a Vito Martino, e a Paolo Lentini, elemento di vertice degli Arena di Isola Capo Rizzuto. In base a quanto mi disse furono date delle doti, nel carcere di Frosinone, dai Crotonesi a Raffaele Moscato, a Rosario Battaglia e ad Antonio Franzé che si era legato ai Piscopisani».

La lettera a Scarpuni

Continua Arena: «Sempre in base a quanto mi riferì Pardea, in quel periodo i Bonavota, che erano già in ottimi rapporti, si erano ancora di più avvicinati ai Grande Aracri. Antonio Pardea aveva buoni rapporti con i Mancuso o, per meglio dire, non li aveva contro. Una volta mandò anche una lettera a Pantaleone Mancuso alias Scarpuni, scrivendo che non c’entrava con i Piscopisani e le guerre che c’erano in quel periodo nel Vibonese, né con la linea che aveva preso il gruppo Mantella. Per fare questo, fu consigliato da Emilio Bartolotta, che in carcere si era molto avvicinato a Scarpuni». Più avanti: «Questa lettera ebbe delle ripercussioni, perché si guastarono i rapporti con Rosario Battaglia e col gruppo degli Emanuele. In realtà, però, le prime critiche arrivarono dalla famiglia stessa, in particolare da Antonio Macrì, che aveva con Andrea Mantella, suo cugino, un rapporto davvero speciale. Quanto ad altre situazioni non cambiò nulla, perché per esempio con Michele Fiorillo alias Zarrillo, elemento di vertice dei Piscopisani, rimanevano ottimi. D’altra parte, ancor prima che si pentisse Mantella, egli aveva scelto di non far parte più di quel gruppo».

La scarcerazione di Luigi Mancuso

Spiega Bartolomeo Arena: «Con la scarcerazione di Luigi Mancuso cambiò tutto. Ci fu una corsa di tutti per cercare di entrare nelle grazie di Luigi Mancuso, che spesso mandava imbasciate a famiglie che non erano del tutto riappacificate con lui. Per esempio Gianfranco Ferrante portò una imbasciata ai Bonavota». Furono proprio le scarcerazioni avvenute nel corso degli ultimi dieci anni a cambiare gli equilibri nella geografia mafiosa del Vibonese. Non solo quella Luigi Mancuso e dello stesso Francesco Antonio Pardea, ma anche quella di Salvatore Morelli l’Americano, oggi superlatitante.