Fu uno dei casi di cronaca più gravi ed eclatanti che si consumarono nella Vibo Valentia degli anni 2000. Era la notte tra il 28 ed il 29 settembre del 2001, quando Grazia Zaccaria fu uccisa con una coltellata dal nipote Michele Lo Bianco, allora ventiquattrenne. Una vicenda per la quale lo stesso Lo Bianco fu riconosciuto unico colpevole, in via definitiva, dalla Cassazione. Anche di questo parla, nel corso della prosecuzione del suo esame al maxiprocesso Rinascita Scott, il collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena.

Ad incalzarlo il pm Anna Maria Frustaci, che chiede ragguagli su Michele Lo Bianco alias Formaggio, oggetto di un attentato intimidatorio, attraverso l’incendio della sua auto, per mano di Michele Camillò, camorrista del rinato clan dei Ranisi e oggi pentito di ‘ndrangheta. «Michele Lo Bianco - racconta Arena - fu rimpiazzato negli anni 2000. Fu arrestato e poi condannato per l’omicidio della zia». Arena racconta retroscena finora sconosciuti: «Quella sera io non restai coinvolto per un puro caso, perché dovevo essere con Michele Lo Bianco, Carmelo Lo Bianco detto Crapina e Giuseppe Pugliese Carchedi. Eravamo invitati a casa da Enzo Barba per cena e poi dovevamo fare un furto di tappeti persiani. Quando dissi a mia mamma che andavo a casa del Musichiere, mia mamma fece il macello. “Non ti basta il fatto di tuo padre?” (il padre di Arena, Antonio, vittima della lupara negli anni ’80, ndr), si mise a gridare. Si gettò a terra e si sentì male davvero. Così, a causa della reazione di mia madre, quella sera non andai da Enzo Barba e restai a casa. Loro invece sono andati».

Bartolomeo Arena racconta quindi cosa avvenne subito dopo la cena: «Una volta usciti dalla casa di Enzo Barba, Michele Lo Bianco si è messo ad urinare davanti alla casa di questa zia, che era lì vicino. Allora lo zio, che con il nipote non aveva buoni rapporti, uscì fuori e gli disse “Porco, tu qui a casa mia vieni ad urinare?”. Nacque una discussione e finirono alle mani. A questo punto uscì pure la moglie, che era una santa donna e si mise nel mezzo per sedare la lite. Michele Lo Bianco però aveva già il coltello in mano. E la coltellata la prese questa povera donna che poi morì».

Continua Arena: «Lui e gli altri scapparono e furono latitanti per qualche giorno. Lì iniziò un percorso particolare, perché ci recammo da diversi avvocati. Un avvocato di Vibo, in particolare, ci disse che per un caso del genere bisognava interpellare un avvocato importante di Catanzaro, che senza amicizia non avrebbe mai preso la difesa. Si trattava dell’avvocato Giancarlo Pittelli. Carmelo Lo Bianco Piccinni ci disse che bisognava parlare con Bruno Barba, defunto fratello di Vincenzo Barba, che era l’unico in grado di intercedere con Pittelli. Tramite Bruno Barba, quindi, Pittelli prese l’incarico. Fu lui che difese mio cugino Pugliese Carchedi e Carmelo Lo Bianco detto “Crapina”, che erano accusati di favoreggiamento. Nelle fasi iniziali mandò i suoi sostituti, poi si impegnò personalmente. Alla fine per l’omicidio fu condannato solo Michele Lo Bianco, che fece pochi anni di carcere».

Arena, spiega in aula, allora sarebbe stato testimone diretto in particolare delle fasi preparatorie della strategia difensiva per i tre implicati in quel tragico fatto di cronaca. «Vincenzo Barba per questa vicenda se la prese molto perché a mio cugino Giuseppe Pugliese Carchedi ci teneva tantissimo. Ci ha tenuto fino alla fine». E per fine, Arena intende il suo omicidio. Giuseppe Pugliese Carchedi fu ucciso infatti il 17 agosto del 2006 tra Vibo Marina e Pizzo: il delitto, attribuito ad esponenti del clan dei Piscopisani, è oggetto del processo Outset, che ha avuto impulso grazie alle dichiarazioni di Andrea Mantella.