Continua il controesame del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena. Tocca agli avvocati Rositano e Di Renzo. In rassegna il tentato omicidio di Carmelo Pugliese e, in seguito, la caratura dell’erede di Mantella
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Il tentato omicidio di Carmelo Pugliese, consumato «tra il 2013 ed il 2014», al centro del controesame condotto dall’avvocato Letterio Rositano nei confronti del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena. L’agguato, aveva sostenuto il dichiarante nel corso dell’esame, sarebbe maturato in seguito ad un «banale screzio», ovvero «uno scambio di sguardi», tra la vittima e Domenico Camillò, nipote omonimo del presunto capo del rinato gruppo dei Ranisi. «Io dissi a mio cugino Domenico che al massimo avrebbe dovuto spararlo alle gambe – spiega il superteste nel corso del maxiprocesso Rinascita Scott – Poi la pistola si inceppò e andò come andò. L’intento era non di uccidere ma di spararlo alle gambe. La 9x19 che avevo consegnato io era perfettamente funzionante, ma fu usata per altre azioni. Io l’avevo pulita la sera prima, ma in maniera superficiale. La vittima non fu colpita, la macchina sì e fu anche sequestrata dalle forze dell’ordine».
Arena, incalzato dal penalista, spiega che «Antonio Chiarella rubò una moto delle Poste. Fui io – dice il collaborante – a commissionare il furto della moto usata per compiere l’agguato. A compiere l’azione di fuoco furono Domenico Camillò junior e Domenico Catania. Il fatto avvenne sotto l’abitazione di Pugliese, in una fase in cui era unificato il locale di ‘ndrangheta con i Lo Bianco-Barba. Ma Antonio Macrì disse che bisognava comunicarlo a Vincenzo Barba, perché altrimenti eravamo in torto, ma ciò avvenne solo dopo. Per noi però la cosa non andava giustificata più di tanto. Domenico Camillò non era ancora affiliato, i Pugliese Cassarola non erano entrati nel “buon ordine”, quindi se una cosa si doveva fare, si faceva… Noi ci sentivamo in colpa solo nei confronti di Vincenzo Barba, ma se dovevamo fare una cosa che interessava a noi non dovevamo chiedere il permesso a nessuno. Non fu solo un fatto personale di Domenico Camillò, ma era condiviso da tutto il gruppo Pardea-Camillò-Macrì».
In seguito tocca all’avvocato Giuseppe Di Renzo, difensore tra gli altri, di una delle più significative posizioni processuali, ovvero Salvatore Morelli, figura emergente della criminalità organizzata vibonese e attualmente latitante, e di Marco Startari, cognato dello stesso Morelli: «Con Morelli ho rapporti criminali sin dal 2016, ma eravamo amici e ci siamo sempre rispettati, anche da molto tempo prima. Suo padre, Vincenzo, era un uomo d’onore e si conosceva benissimo con mio padre. Il padre non ha precedenti penali, poi si è distaccato. Anche il nonno, che si chiama pure lui Salvatore, era un uomo d’onore». Fonte delle sue conoscenze sui Morelli, dice Arena, era «Salvatore Mantella ma, soprattutto, la buon’anima di Giuseppe Mantella, che mi fece da fratello maggiore e mi disse anche tante cose su mio padre».
Legatosi ad Andrea Mantella, poi divenuto collaboratore di giustizia, una volta uscito dal carcere, Salvatore Morelli assieme allo stesso Arena e a Francesco Antonio Pardea, «tra il 2016 e il 2017» iniziò a «dare doti e rialzi per fatti nostri. Fu allora – spiega il dichiarante replicando all’avvocato Di Renzo – che siamo divenuti la stessa cosa. Il rapporto stretto che però aveva con Pardea non lo aveva con me. Loro rispetto a me erano in posizione verticistica, io non ero ai loro livelli quanto a doti di ‘ndrangheta. Ma se io ero contrario a certe situazioni lo dicevo e non volevo percepire soldi. A me non piaceva come volevano condurre estorsioni e danneggiamenti. Li prendevo solo per quelle che chiudevo io. Il loro modo portava solo forze dell’ordine sotto casa, problemi e intercettazioni per chi non si sapeva guardare. Per quanto sappia, Morelli aveva la dote della Stella, come Pardea e Domenico Macrì. Me lo disse Pardea, anche se non poteva dirlo, visto che avevo una dote più bassa».
E ancora: «Morelli avrebbe voluto eliminare Filippo Catania, lo disse a Pardea, ma mai ne parlammo concretamente, pianificando l’agguato. E poi Morelli è una persona molto furba e parla poco. Si guarda molto per non essere intercettato».