Continuano i riconoscimenti fotografici del collaboratore di giustizia. Inizia dall'ultimo del suo gruppo a saltare il fosso e a parlare con i pm
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Il solito cappellino nero, fiaccato dagli effetti del vaccino anti-Covid, ma determinato a sottoporsi comunque all’esame del pubblico ministero Anna Maria Frustaci. In videocollegamento con l’aula bunker di Lamezia Terme, riprendono i riconoscimenti fotografici da parte del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena al maxiprocesso Rinascita Scott. La prima effige che viene mostrata al pentito è quella di Michele Camillò, detto “il Mangano”, figlio del presunto capo del rinato clan dei Ranisi, Domenico Camillò. Oggi Michele è collaboratore di giustizia.
Michele Camillò
«È un mio cugino, è stato rimpiazzato nel 2013 come camorrista dopo che è nato il nostro gruppo su iniziativa di mio zio Domenico Macrì, Raffaele Franzé detto lo Svizzero, Antonio Macrì e Raffaele Pardea – spiega Arena – Poi a loro si sono aggiunti altri. La cerimonia per Michele si è svolta in casa mia, con me ha fatto la tirata e mi portava anche in copiata. Quel giorno c’era anche il padre, ma è dovuto uscire perché un padre non può assistere al rimpiazzo di un figlio e non può essere neppure in copiata. Quel giorno ebbero la camorra anche Marco Pardea e Domenico Pardea “il Lungo”. Qualche mese dopo la ebbe anche Michele Manco, rimpiazzato assieme ad Antonio Franzé e Giuseppe Franzé». E ancora: «Già prima della sua affiliazione, Camillò si occupava di spaccio di cocaina – continua Arena –. Ha fatto diversi danneggiamenti, qualcuno è stato commissionato anche da me. Gli ho fatto incendiare la Mercedes del padre di Cisca Paternò, in via Sant’Aloe, che era in uso ai figli i quali erano vicini ai Pugliese “Cassarola”. In un altro caso, insieme a lui, ho incendiato l’auto di Michele Lo Bianco, una Fiat Croma station wagon in via Affaccio».
Gli altri attentati
Poi racconta Arena racconta un episodio singolare: «Un’altra volta mio zio Domenico Camillò non ha raccolto gli escrementi del cane e gli hanno fatto la fotografia e la multa. Abbiamo chiesto a qualcuno dei vigili chi l’aveva fatta e ci dissero che era stata fatta dal figlio del capo dei vigili di San Costantino Calabro. Abbiamo visto le auto di questo soggetto. Quindi Michele Camillò si recò con un altro nostro cugino, Carmelo Chiarella, e gli incendiarono la macchina. Il mandante fu Domenico Camillò che era inferocito per questa multa».
In genere – secondo il collaboratore – Michele Camillò «incendiava le auto con la diavolina, era una tecnica appresa dai cosentini, e che usavo io sin dagli anni ’90. Gliela insegnai io». Andando avanti: «Fu sempre lui a sparare, dopo una discussione al bar Filippo’s, contro i Crudo. Prima Michele provò a sedare una rissa, ma prese uno schiaffo da Michelangelo Barbieri. Venne a casa mia all’una di notte con suo nipote Domenico Camillò e Luigi Federici. La mattina seguente ci siamo organizzati, c’erano anche altri. Reperimmo un’arma, un fucile a pompa Winchester, e una moto rubata, già servita per precedenti sparatorie. Quindi andarono a fare il danneggiamento a casa dei Crudo, abbiamo nascosto il fucile a casa di mio nonno e gli altri incendiarono la moto. In seguito Mommo Macrì ci disse di stare attenti perché Peppone Accorinti voleva mandare qualcuno a farci del male. Da allora ci siamo messi la pistola addosso per pattugliare il quartiere, ma non successe nulla. Poi si videro Macrì e Peppe Accorinti e la cosa si calmò e col tempo i problemi si risolsero».
Sempre Michele Camillò - spiega Arena - sarebbe stato l’autore «dell’incendio dell’auto della dottoressa Soriano, che si occupava delle invalidità civili. «La dottoressa non si mise a disposizione con mio zio Mimmo Camillò che gli aveva raccomandato qualcuno - dice il collaboratore -. Così incaricò il figlio Michele. Incendiò, assieme a Marco Pardea, la macchina di Giacinto Grillo, per dissidi familiari. E fu interessato sempre Michele Camillò per l’incendio dell’auto di Orazio Lo Bianco, per i soliti rancori con i Pugliese “Cassarola”».