«Tanto nel caso dell’avvocato Dieni, quanto in quello dell’avvocato Putortì, ci troviamo davanti alla chiara assunzione ci precise e definite collocazioni associative, di specifici e duraturi ruoli, connessi e strumentali alla nobile professione ufficialmente svolta, stabilmente ed organicamente compenetrati nel tessuto organizzativo dell’associazione, inequivocabilmente finalizzati, per le parti di competenza, al soddisfacimento delle esigenze della cosca». Usa parole durissime il gup Antonio Scortecci, nelle motivazioni della sentenza “Rifiuti 2”, depositata nei giorni scorsi e con cui furono condannati a otto anni di reclusione, due noti professionisti reggini, gli avvocati Giulia Dieni e Giuseppe Putortì.

 

Ebbene, il giudice nelle mille pagine che compongono la decisione di primo grado aderisce in modo completo alla prospettazione accusatoria, differentemente da quanto era stato fatto in precedenza, con la riqualificazione del reato in concorso esterno. No, per Scortecci entrambi i professionisti vanno condannati per associazione mafiosa piena, con la cosca Alampi di Trunca, famiglia protagonista del processo “Rifiuti 2”. Per il giudice «gli avvocati, i quali assumevano vari incarichi professionali a difesa degli Alampi, si sono lasciati coinvolgere nell’attività dei loro clienti mafiosi, abdicando a proprie funzioni professionali, diventando così soci in quell’attività criminale organizzata».

 

Pedine essenziali. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, con intercettazioni telefoniche ed ambientali, l’avvocato Dieni «era indicata dal capocosca Matteo Alampi ai reggenti in stato di libertà (come il capostipite Giovanni Alampi ed il fratello Valentino Alampi) come una pedina essenziale nella strategia di sopravvivenza e rilancio della cosca a seguito dell’operazione “Rifiuti 1”, in quanto ella, in caso di necessità, avrebbe rappresentato l’anello di congiunzione tra il capocosca e l’ingegnere Mamone, sfruttando la facilità e la riservatezza dei colloqui difensivi». Il giudice è perentorio: «Avere siffatto ruolo in un progetto ‘ndranghetistico imprenditoriale non è legittimo esercizio della professione forense». Ma vi è di più. Per Scortecci, Dieni era «l’interfaccia professionale di Matteo Alampi anche rispetto allo storico commercialista degli Alampi, Michele Leone, e, più in generale, si occupava stabilmente sulla base del titolo e delle competenze di avvocato, degli affari in corso della cosca in elusione del sequestro vigente nel processo “Rifiuti 1” o comunque di ulteriori possibili provvedimenti reali, per lo più nel settore immobiliare, ma anche in altri campi, come nella rivendita imprenditoriale di autovetture».

 

«Non è legittimo esercizio della professione forense». Quasi come una sorta di ritornello, il gup mette il coltello nella piaga: «Occuparsi, con il titolo e la competenza di un avvocato, degli affari di una cosca (…) non è legittimo esercizio della professione forense. Consigliare e supportare la cosca nella chiusura di una società e l’apertura di un’altra in sostanziale prosecuzione della medesima attività imprenditoriale per eludere le misure ablative giudiziali, non è legittimo esercizio della professione forense. Consigliare e supportare la cosca per ottenere indebitamente il dissequestro di un’area e di mezzi per riprendere occultamente l’attività imprenditoriale sotto sequestro, non è legittimo esercizio della professione forense. Fare tutto ciò sulla base di un notevole numero di colloqui con il capocosca, strumentalizzando la nomina a sostituto processuale per fini diversi dalla difesa nel procedimento non è legittimo esercizio della professione forense. Ricevere dalla cosca il pagamento di compensi per l’attività professionale svolta in un processo di interesse associativo non è legittimo esercizio della professione forense». Ma allora che cos’è tutto questo? Scortecci non le manda a dire: «Tutto ciò è la posizione associativa di un professionista stabilmente piegato alla cosca Alampi, di interfaccia professionale del capocosca, di collegamento fra sodali, oltre che tra la cosca e l’esterno, di consigliore di tale consorteria mafiosa, in piena coscienza e volontà di farne parte, attraverso tale variegato ed efficace ruolo dinamico e funzione, non senza gli illustrati riconoscimenti interni ed esterni».

 

Il postino del clan. Un ritornello assai simile è quello relativo all’avvocato Giuseppe Putortì. Il gup non ha dubbi: «Fungere da postino e messaggero della cosca, recapitando missive e messaggi del capocosca o di altri sodali detenuti, su questioni di vitale importanza per l’associazione, sfruttando la facilità e la riservatezza dei colloqui difensivi, non è legittimo esercizio della professione forense. Essere stabile elemento di collegamento tra associati in libertà e detenuti, con particolare riferimento al capocosca, oppure tra intranei ed estranei contigui, in nessun caso è legittimo esercizio della professione forense. Consigliare la cosca per ottenere indebitamente il dissequestro di un’area e di mezzi (…) non è legittimo esercizio della professione forense». Anche per Putortì rilevano i numerosi colloqui con il capocosca, così come «ricevere, per tali stabili favori, incarichi professionali e compensi economici». Anche lui viene dipinto come «professionista stabilmente piegato alla cosca Alampi, con il ruolo di postino, di messaggero, di collante tra sodali, oltre che tra la cosca ed imprenditori contigui, di consigliori, in piena coscienza e volontà di farne parte».

 

L’amministratore compiacente. «Non vi possono essere dubbi sulla colpevolezza di Spinella in ordine al reato di concorso esterno». Anche per l’amministratore giudiziario Rosario Spinella, condannato in primo grado ad otto anni, il gup è perentorio: «Sebbene non inserito organicamente nella struttura organizzativa degli Alampi e privo dell’affectio societatis, consentiva le ingerenze della cosca nelle società sequestrate, finanziava la cosca, permetteva alla cosca di proteggere un latitante nelle aziende sequestrate e, soprattutto, avallava la nomina di Mamone, così fornendo un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario al progetto ‘ndranghetistico imprenditoriale di sopravvivenza e rilancio della peculiare cosca-impresa degli Alampi». Il giudice ne è convinto: «Senza Spinella gli Alampi non avrebbero continuato ad ingerirsi indebitamente nelle aziende, non avrebbero tratto da esse i necessari finanziamenti e non avrebbero potuto insidiare il loro uomo, l’ingegnere Mamone, e quindi attuale il loro progetto ‘ndranghetistico-imprenditoriale».

 

Consolato Minniti