Le motivazioni del processo Eracle fanno emergere uno spaccato di assoluto dominio delle ‘ndrine e certificano l’esistenza di tre sodalizi dediti a spaccio di droga e ingerenza nei locali del lungomare
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Tre associazioni ben organizzate: una mafiosa, la seconda che controlla il traffico e lo spaccio di droga, ma anche le corse clandestine di cavalli, e la terza in cui emerge «l’inquietante spaccato del controllo da parte della ‘ndrangheta del servizio buttafuori all’interno dei locali cittadini che in estate vedono concentrarsi migliaia di giovani». A scriverlo è il gup Filippo Aragona nelle motivazioni della sentenza del processo, svoltosi in abbreviato, scaturito dall’ operazione “Eracle”. Il 13 marzo scorso all’esito del giudizio il gup, sposando l’impianto accusatorio dei pm antimafia Sara Amerio, Walter Ignazitto, Giovanni Gullo e Stefano Musolino, comminò ben 265 anni di carcere per gli imputati accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, porto e detenzione di armi da guerra e comuni da sparo, tentata estorsione, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, intestazione fittizia di beni e maltrattamento di animali. Le pene oscillarono dai venti anni all’anno di carcere mentre solo una fu l’assoluzione. Nell’indagine, messa in piedi da Carabinieri e Polizia, emerse il ruolo preponderante delle cosche attive nella zona Nord di Reggio Calabria, riconducibili alle famiglie mafiose dei Tegano e Condello, ma anche di quello ricoperto da una famiglia di etnia rom riconosciuta per la prima volta, in riva allo Stretto, una ‘ndrina a pieno regine, ma anche la loro capacità di infiltrazione nel tessuto imprenditoriale attraverso vecchi e nuovi metodi.
‘Ndrine, sangue e movida
Uno dei filoni principali dell’inchiesta ha riguardato le aggressioni e le risse registratesi nelle estati passate. Episodi che hanno evidenziato il ruolo centrale ricoperto dalle giovani leve della ‘ndrangheta che in molti casi hanno malmenato brutalmente, arrivando persino a compiere un tentato omicidio, chiunque osasse sfidarli non riconoscendo il loro ruolo mafioso. E il tutto è stato possibile, adesso anche per il gup, grazie alla fitta rete dei buttafuori che in modo del tutto arbitrario controllavano i principali lidi della movida cittadina. La sera del 29 agosto del 2015 il gruppo composto da Domenico Nucera, Fabio Vittorio Minutolo (condannati a 20 anni di carcere in primo grado), Michele Panetta (8 anni), Fabio Caccamo, Basilio e Giuseppe Emanuele (tutti e tre puniti con 7 anni e 4 mesi) è stato riconosciuto colpevole di una vera e propria spedizione punitiva, avvenuta nel quartiere di Gallico, alla periferia nord di Reggio ai danni di altri giovani presi a sprangate con mazze e sedie mentre uno di loro fu anche raggiunto da colpi di pistola a una gamba. Una lite sfociata all’interno di uno dei tanti lidi che doveva essere “vendicata” al più presto. A incastrarli, nonostante le vittime non abbiano mai sporto denuncia per timore di ripercussioni, furono alcuni video registrati dalle telecamere degli esercizi commerciali della zona. «Le scene tratte dai video - scrive il gup - rappresentano l’esercizio del potere coercitivo mafioso tradottosi, tuttavia, in una condotta che rivela l’inaudito, sproporzionato e del tutto ingiustificato uso di una violenza smodata da cui traspare, accanto all’intento di imprimere nella coscienza dei consociati il timore connaturato all’esercizio concreto del potere mafioso, l’indole violenta dei singoli coinvolti». Ma c’è di più. Non siamo in presenza di un singolo episodio scaturito da un gruppo di balordi, ma «le scene del pestaggio sono quasi un manifesto di quale sia la faccia della ‘ndrangheta militare, quella cui è deputato il controllo del territorio che concretamente agisce per tenere soffocata un’intera città, mentre altri decidono le strategie più occulte e maggiormente lucrative in settori in grado di rendere all’associazione mafiosa introiti di sicuro più ingenti che il meccanismo dei buttafuori appare in grado di consentire». Uno scenario triste e desolato quello appena descritto dal gup che evidenzia, ancora una volta, come la ‘ndrangheta strozzi la città dello Stretto che, incurante di quanto avviene a poche centinaia di metri, si accontenta di sorseggiare sterili cocktail e saltellare sulle varie hit dell’estate mentre si spaccia cocaina di fianco a minorenni o si spari a ventenni “rei” di aver detto una parola di troppo. «La presenza della ‘ndrangheta - scrive in un’amara conclusione il gup - appare immanente, si riverbera nel costante esercizio della violenza nelle vicende che più colpiscono o attirano l’attenzione dei consociati, ampliando quella fama criminale che poi consente di agire indisturbata nel settore, ad esempio, delle estorsioni».
Soldi e cavalli
Un altro particolare riguarda le corse clandestine dei cavalli. Nucera, secondo gli inquirenti, era infatti un assiduo frequentatore di un ricovero per equini che gli inquirenti individuano nella disponibilità della cosca famiglia per conto della quale la “scuderia” effettuava ripetutamente corse clandestine sulla strada a scorrimento veloce Gallico-Gambarie. Gli imputati poi, avrebbero anche impartito, senza alcuno scrupolo, disposizioni sui farmaci, alcuni riservati ad uso umano esclusivo, da somministrare ai cavalli per migliorarne le prestazioni compromettendo la loro salute. Anche se per questi episodi la Procura non ha contestato l’aggravante mafiosa per il gup siamo «quasi nel campo della tradizione della ‘ndrangheta, che non disdegna di operare in un settore che anima la passione di una parte della popolazione, ma che finisce col divenire esso stesso strumento di arricchimento». Il tutto maltrattando gli animali costretti a correre sull’asfalto, compromettendo l’uso degli zoccoli, e dopati fino all’inverosimile affinché le loro prestazioni fossero le più redditizie possibile. «Poverini, i cavalli li frustate», diceva una donna intercettata. Ma questa era solo una delle tante violenze che gli animali erano costretti a subire da presunti mercenari senza anima. Gli imputati poi, si improvvisavano anche chirurghi «e si adoperavano ad effettuare interventi manuali sugli equini» pur non avendo alcun titolo o conoscenza veterinaria. Le gare clandestine si tenevano all’alba la domenica mattina sulla Gallico-Gambarie; anche in questo caso ad incastrarli sono stati i video registrati in diretta dalle forze dell’ordine.
Gipsy boss
Non è circostanza nuova che alcuni esponenti della comunità rom di Arghillà, quartiere alla periferia Nord di Reggio, siano attivi nel spaccio di droga o siano usati come “manovalanza” dalla criminalità organizzata. L’inchiesta “Eracle”, però è andata oltre arrivando per due dei presunti capi a riconoscere l’esistenza di una vera e propria cosca. Si tratta di Andrea e Cosimo, detto Cocò, Morelli, condannati entrambi a 20 anni di reclusione. «Cocò Morelli - scrive in sentenza il gup - è emerso in questo procedimento quale soggetto che, insieme al fratello Andrea Morelli, ha organizzato e diretto l’associazione di tipo mafioso presente ad Arghillà e operante sotto la supervisione della cosca mafiosa retta da Rugolino di Catona». Non più soldatini delle ‘ndrine, ma capi a tutti gli effetti. «Senza dubbio - continua il giudice - l’organizzazione diretta dai Morelli è di tipo mafioso in quanto presenta tutte le caratteristiche tipiche dell’associazione: la struttura gerarchicamente ordinata e adeguata per mettere in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblica, la forza di intimidazione per condizionare le attività dei cittadini sul territorio e per infiltrarsi nelle attività pubbliche ed economiche, un programma criminoso indeterminato, la disponibilità di armi, la capacità di insinuarsi nelle pieghe della società per procurarsi vantaggi economici, la capacità di relazionarsi e di stringere alleanze con altri gruppi criminali». Oltre ai Rugolino infatti, i Morelli avrebbero teso alleanze con i Serraino e gli Stellitano, storiche cosche mafiose. Che i Morelli, poi, avrebbero diretto una ‘ndrina è comprovato, per il gup, da uno specifico episodio in cui l’imputato Francesco Ferrante, condannato anche lui a 20 anni di carcere, nell’agosto del 2016 si recherà ad Arghillà per chiarire i suoi rapporti con Cocò Morelli e «viene circondato da uomini di quest’ultimo armati di pistole finché Morelli non ordina ai suoi di fermarsi per rispetto del boss Domenico Stillitano, zio del Ferrante, e quindi questi mettono da parte le armi». Un rispetto mafioso costato la condanna più alta dell’intero processo. (foto in copertina di Attilio Morabito)